SPEZZARE LE CATENE DELLA FOLLIA
- riccigianfranco199
- 29 mag 2023
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 11 giu 2023
Il termine “follia” oggi è rifiutato dalla clinica medica, dalle classificazioni nosografiche e dal discorso scientifico.
Il suo posto è stato preso da una serie, sempre in crescita, di “etichette” diagnostiche, parole che cercano, nelle loro diverse sfumature ed accezioni, di afferrare il mistero della follia.
Nei secoli, il “folle” ha occupato ruoli e posti diversi nella società.
Salvo rari casi, come l’aedo greco, invasato dal dio, reso folle dalla possessione divina, in generale il folle è sempre stato recluso, emarginato, rifiutato.
Il senza limite, la sregolatezza della sua condizione si traduceva in un rifiuto senza appello da parte della società.
L’etimologia stessa del termine “follia” rimanda al vuoto, alla mancanza stessa della mente e della possibilità di esprimere qualcosa della propria soggettività.
Questo si è poi tradotto nella concezione medica della follia, intesa come deficit, menomazione, incapacità di stare al mondo.
Questa concezione della follia come “disabilità” è evidente nella storia della più nota e rappresentativa categoria diagnostica della psichiatria: la schizofrenia.
Emil Kraepelin, tra i padri della psichiatria moderna, aveva creato la diagnosi di “dementia praecox”: una condizione psichiatrica che, insieme alle allucinazioni e alle formazioni deliranti, vedeva una sorta di declino cognitivo, una “demenza precoce”, diversa da quelle che caratterizzano l’età avanzata.
Rapidamente, il concetto di “dementia praecox” ha lasciato il posto a “Schizofrenia”, come proposto da Eugen Bleuer nel 1908.

Ritratto di Eugene Bleuer
Il breve lasso di tempo tra la definizione della prima categoria e la sua sostituzione con la seconda non ha tuttavia cancellato lo stigma di “disabilità” che accompagna la psicosi.
La stessa concezione del cosiddetto “esordio psicotico” rispecchia l’idea che sta alla base della clinica medica della schizofrenia: un “prima” ed un “dopo”, con l’emergere di una corte di sintomi e segni che, come insegna la medicina, divengono patognomici di una certa sindrome.
Tra i cambiamenti osservati nella fase di esordio, vi sarebbe proprio questa sorta di declino cognitivo, di vera e propria “disabilità cognitiva e funzionale”.
La psichiatria ha oscillato, tra Otto e Novecento, tra due posizioni:
- una concezione “funzionale” del disturbo, che vede nella follia un problema che rende il soggetto incapace di essere adatto alle richieste del mondo sociale: attenersi ad un certo stile di vita, lavorare, pagare le tasse, adattarsi a convenzioni ed aspettative sociali;
- una concezione soggettiva della follia, che vede in essa una delle possibili soluzioni per “essere-nel-mondo”.
Se la prima concezione ha dato origine ai manicomi e alla contenzione-prigionia dei follia, è con Philippe Pinel che la segregazione del folle diviene tentativo di cura: tra il Cinquecento e il Seicento, il folle, prima errabondo, nomade, viene rinchiuso in istituti, divenendo di fatto un prigioniero a causa della sua condizione.
È Pinel, tra fine Settecento e i primi anni dell’Ottocento, ad eliminare le catene che vincolavano i malati rinchiusi negli istituti che ha diretto.
Perché i folli, visti come agitati, pericolosi e sregolati, erano incatenati in stanze sudice, sporche e fatiscenti.
Nel suo “trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale” (1800), Pinel pone le basi di un “trattamento morale”, umano della follia.

Pinel ritratto nell'atto di eliminare le catene che vincolavano gli alienati.
È una strada che, con alterne fortune, porterà fino alla clinica contemporanea, passando per Basaglia, la critica di Goffman, Foucault e l’idea del superamento del manicomio.
Per approfondire:
-Franco Basaglia, L’istituzione negata;
-Michel Foucault, La storia della follia nell’età classica;
-Erving Goffman, Asylums.
La posizione di Basaglia, psichiatra italiano, celebre per la Legge 180 del 1978 che riforma la psichiatria in Italia con la chiusura dei manicomi, fonde filosofia, fenomenologia e marxismo in una sintesi originale: le ragioni profonde dell’esclusione del folle, sottolinea Basaglia, sarebbero da ricercare nell’inadeguatezza del malato rispetto alla necessità di essere un buon “consumatore” e “produttore”; la reclusione forzata eviterebbe alla società di farsi carico della sofferenza singolare del folle, con un atto politico prima che clinico.

Franco Basaglia
È quindi nell’apertura del manicomio alla città il primo passo politico da compiere: Basaglia realizzerà i propri propositi nel manicomio di Trieste, città da sempre animata da contaminazioni, diverse culture, lingue ed etnie, trovando quindi un posto persino per la follia.
Il manicomio di Trieste è divenuto un centro di riferimento per artisti, poeti, intellettuali e studiosi, aprendo la strada per il superamento del manicomio come luogo di prigionia.
Non a caso, i grandi manicomi sono costruiti in campagna, nelle periferie delle città, perché non disturbino il laborìo costante della società del capitalismo.
L’istituzione stessa, come avviene anche nelle carceri, “fabbricherebbe” il malato, aggravando la sua sofferenza con una nuova condizione, l’“istituzionalizzazione”. Come sottolinea Goffman, in “Asylums”, è la vita all’interno dell’istituzione un ingrediente decisivo del degrado esistenziale e umano dei manicomi.
Il superamento del manicomio come istituzione di “esclusione”, di “confinamento” del malato risponde sia ad esigenze cliniche, filosofiche e politiche: è la società nel suo complesso, desiderosa di vedersi sana, conforme, adattata, a doversi fare carico del “fuori senso”, dell’“estraneo”, del “non conforme”, cifra propria di ogni essere umano.
Per questo la concezione biologica, “neuro”, della follia è insufficiente: la riduzione della follia a “disturbo del cervello”, da curare tramite farmaci, riflette lo stigma di “disabilità” che circola intorno alla sofferenza mentale, senza lasciare alcuno spazio al “discorso” del folle, alla sua soggettività.
Come Freud ci ricorda, la psicologia individuale e sociale sono come vasi comunicanti: possiamo allora intendere i manicomi come una forma istituzionalizzata della rimozione, del rifiuto della follia, di quanto di perturbante attraversa la condizione umana.
Comments