MARILYN E LA PSICOANALISI
- riccigianfranco199
- 1 set 2024
- Tempo di lettura: 6 min
“Marilyn è un caso esemplare di fallimento del trattamento psicoanalitico… Suscitò il nostro amore, ma nessuno di noi era disposto a pagarne il prezzo”
André Green (“Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico”)

Marilyn Monroe
La storia di Marilyn Monroe, immortale icona di bellezza è fascino, è attraversata da una sofferenza profonda e lacerante, ben diversa dall’immagine sensuale ed accattivante costruita dai registi di Hollywood.
Fin dall’infanzia, la giovane Marilyn (il cui vero nome era Norma Jeane Mortenson) visse in ambiente familiare tormentato e caotico, segnato dalla povertà, dall’assenza di una figura paterna stabile e dalle sofferenze psicologiche e sociali della madre, Gladys.
La giovane madre, sola e tormentata da disturbi psichiatrici, era incapace di occuparsi dei figli da sola. Per questo, la piccola Norma venne affidata ad una coppia che si occupava di orfani dietro compenso; la diagnosi della madre causò l’intervento dei servizi sociali, che affidarono la piccola all’orfanotrofio “Children's Home Society” di Los Angeles.
Ogni tentativo di inserimento in nuove famiglie fallì: tutte le volte la giovane ritornava in orfanotrofio, a volte perché accusata di piccoli furti, a volte con accuse di maltrattamenti.
Sposa giovanissima (sotto forti pressioni della madre), Norma si divideva tra la vita da casalinga e piccole occupazioni, fino a quando venne notata per il suo aspetto: venne invitata a posare per la realizzazione di alcune foto destinate ai soldati dell’esercito, venendo eletta “Miss lanciafiamme”: l’aspetto fisico emerse come unico elemento di riscatto per la giovane in un contesto di profondo degrado, povertà e disagio sociale e psichico.
Il successo mondiale delle foto portò Norma a scegliere un nome d’arte, con il quale diverrà famosa in tutto il mondo: Marilyn Monroe. I primi contatti con il mondo del cinema furono fallimentari e Marilyn si trovò in gravi difficoltà economiche, costretta al lavoro di spogliarellista per sopravvivere. Scelse persino di posare nuda, pur di sostenere le sue pur ridotte spese. La notizia suscitò sia scandalo che un moto di solidarietà, verso un’attrice tanto bella quanto sfortunata.
Solo negli anni Cinquanta avvenne la tanto attesa consacrazione, con film come “Niagara” e “Gli uomini preferiscono le bionde”. Iniziò il suo periodo d’oro come attrice, ma fuori dal set la sua vita rimaneva difficile: tutte le sue relazioni sentimentali si rivelavano fallimentari e il disagio psichico della madre era fonte di critiche, perché Marilyn era accusata di non fornirle l’aiuto necessario per curarsi.
Musical e successi al botteghino si succedevano incessantemente, rendendo Marilyn una delle maggiori Star di Hollywood. I matrimoni con Joe di Maggio (campione di baseball) e con Arthur Miller e la storia con Frank Sinatra riempivano le pagine dei tabloid.

Marilyn insieme al marito Joe di Maggio
Tuttavia, sul fronte privato, il desiderio di Marilyn di diventare madre era costantemente frustrato: da una parte l’endometriosi la costrinse ad un gran numero di interventi; dall’altra ogni tentativo di concepire un figlio si traduceva in un aborto (i biografi ne contano più di dieci nel corso della breve vita dell’attrice).
Le delusioni della vita privata e sentimentale spinsero Marilyn a chiedere l’aiuto della psicoanalisi. Nel corso della sua vita, la Monroe incontrò quattro psicoanalisti:Margaret Herz Hohenberg, Anna Freud, Marianne Kris, Ralph S. Greenson e M. Wexler.
Sulla personalità di Marilyn, Anna Freud stese una diagnosi lapidaria:
“Emotivamente instabile, altamente impulsiva e bisognosa di una continua approvazione dal mondo esterno; non sopporta la solitudine e tende a deprimersi di fronte al rifiuto; paranoica con elementi schizofrenici”

Anna Freud, celebre psicoanalista e figlia di Sigmund Freud
Nonostante i numerosi tentativi, nessuna cura si rivelò risolutiva e la bellissima diva di Hollywood non troverà mai pace dai propri fantasmi interiori.
L’incubo della follia materna si ripeteva nella vita psichica della bellissima e fragile Marilyn. Ottenuto il successo globale grazie alla sua straordinaria bellezza, la Monroe divenne il prototipo della “bambola”, bellissima ma condannata ad essere solo l’oggetto del desiderio maschile. Per lei, nonostante l’impegno nello studio della recitazione, nessun altro ruolo era possibile.
Nel 1958 la sua salute mentale divenne sempre più precaria, spingendola a chiedere aiuto a Ralph Greenson. Il deterioramento del matrimonio con Miller spinse Marilyn ad assumere grandi quantità di farmaci per lenire il dolore e riuscire a dormire, sviluppando una dipendenza da essi. L’abuso di alcool contribuiva a rendere il caso ancora più complesso.

Ralph Greenson, ultimo psicoanalista della Monroe
Nel 1961 la situazione subì un ulteriore peggioramento: sempre più sofferente, Marilyn si fece ricoverare, sotto falso nome nell’ospedale psichiatrico di New York per poi essere accolta, grazie all’interessamento dell’ex marito Joe di Maggio, all’ospedale Columbian Presbyterian.
Nonostante i continui problemi di salute e l’incapacità di lavorare con continuità, nel 1962 Marilyn diede prova di tutto il proprio talento e della propria seduttività cantando gli auguri di buon compleanno al Presidente Kennedy; il commento di JFK fu “Adesso, dopo aver ascoltato degli auguri così dolci, posso anche ritirarmi dalla politica”.
I continui stop alle riprese portarono 20th Century Fox a fare causa all’attrice; tuttavia, un nuovo accordo milionario spinse Marilyn a tentare nuovamente di tornare al lavoro. Grazie alle proposte ricevute, la Monroe avrebbe potuto finalmente sperimentarsi in altri ruoli dentro e fuori dal set, ad esempio come regista e sceneggiatrice.
Tuttavia, il 5 agosto 1962 venne ritrovata esanime nella sua casa di Brentwood, a Los Angeles. Forse un suicidio, procurato con l’ingestione di una dose fatale di barbiturici. Tra i primi a soccorrerla, proprio lo psichiatra Greenson, allertato dalla governante dell’attrice.
Sulla morte di Marilyn Monroe sono fiorite molteplici dietrologie, dato il grande clamore della notizia e la fama mondiale dell’attrice. Anche in questa occasione, la fragilità umana dell’attrice è rimasta in secondo piana, oscurata dalla luce accecante dei riflettori.
Marilyn venne sottoposta, come era prassi all’epoca ad un’analisi molto intensa, di cinque sedute settimanali. Tuttavia, nonostante un tale lavoro clinico, l’attrice non riuscì mai a risolvere i propri turbamenti, scivolando nella dipendenza da farmaci e da alcolici.
Lo stesso Freud era molto pessimista rispetto ai casi di dipendenza ed era restio a prendere in cura pazienti che affrontavano questo genere di problematiche; riteneva infatti che in tali situazioni l’analisi potesse essere poco efficace e la prognosi negativa.
Anna Freud ricevette Marilyn a Londra nel 1956, durante le riprese di un film, per poi proseguire la cura a New York, con Marianne Kris. Nel 1957 Monroe cominciò ad andare da Greenson, senza tuttavia abbandonare la cura con Kris; semplicemente, quando era a New York, andava in seduta da Kris, quando era ad Hollywood, a riceverla era Greenson.
Che confusione! Fu la stessa Kris a suggerirle il ricovero in ospedale psichiatrico; tuttavia la psicoanalista si pentì di quanto fatto, perché tale atto venne vissuto come un tragico abbandono, con effetti drammatici sulla cura. La stessa Kris, nelle sue memorie, avrà modo di commentare: “Ho fatto una cosa terribile! Oh mio Dio! Non volevo farlo! Proprio non volevo, ma l’ho fatto”.
Greenson divenne una figura centrale nella vita di Marilyn; il transfert era così forte che l’attrice chiamava l’analista “il mio Gesù” e Greeson scivolò nel concedere molto all’attrice: le presentò la propria famiglia, invitandola a cena; le concesse sedute di tre o perfino quattro ore ogni giorno. La cura analitica era diventata una sorta di adozione, di maternage. Questa cura durata venti mesi mise Greenson nella posizione di un genitore vero e proprio, condannando la terapia al fallimento.
La storia di Marilyn ci mostra l’importanza dei limiti della psicoanalisi: ogni tecnica infatti va applicata avendo presente fin dove è possibile spingersi e con l’attenzione necessaria alla tutela di questi limiti. La storia clinica della Monroe mostra che, purtroppo “non tutto è possibile” e vi sono forme di sofferenza che vanno al di là della terapia. Allo stesso modo, i superamenti dei limiti costituiscono una seria minaccia per l’efficacia delle terapia. Piuttosto che costituire un rifiuto di aiutare i pazienti, i limiti all’azione dell’analista sono fondamentali per mantenere la corretta posizione della cura.
Se l’analista può fare qualcosa per i suoi pazienti, è nella sua funzione di analista, e non incarnando letteralmente il genitore buono che è mancato al paziente (per esempio preoccupandosi che il paziente lavori o invitandolo a casa per cena).
Per approfondire:
André Green - Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico;
Luciano Mecacci – Il caso M. Monroe e altri disastri della psicoanalisi;
Liliana dell’osso - L’Altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un cold case;
Il problema del transfert e del suo uso nella cura è al centro della ricerca psicoanalitica, fin da Freud. Il caso di Marilyn ci offre molteplici spunti sul suo peso nella terapia; per la Monroe il terapeuta era divenuto il proprio salvatore, unico faro in una vita di grande sofferenza.
Allo stesso tempo, la celebrità dell’attrice e la pressione mediatica devono aver avuto un peso drammatico nella gestione del setting e del contro-transfert rendendo la cura incredibilmente complessa. Come essere nella posizione di analista con pazienti così esposti?
Inoltre, la presenza di una dipendenza così massiccia e di figure pronte ad approfittare delle debolezze di Marilyn devono aver ulteriormente reso difficile la cura, spingendo Greenson a divenire letteralmente un genitore per l’attrice.
Il mix di questi ingredienti appare esplosivo. Cosa avrebbe dovuto fare l’analista? Interrompere la cura? Suggerire il ricovero come fece Kris? Tenere duro? È difficile trovare una risposta univoca.
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