LO “SGUARDO” DI LACAN
- riccigianfranco199
- 18 mar
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Jacques Lacan è stato uno degli psicoanalisti più noti ed influenti. Nel corso dei suoi seminari, Lacan ha ripreso e approfondito la teoria freudiana, includendo nella sua ricerca riflessioni sulla letteratura e l’arte.
Anche se mai in modo sistematico, Lacan ha esplorato il rapporto tra l’osservatore e l’opera d’arte, dando spunti preziosi per un’estetica psicoanalitica.
Nel corso del Seminario XI, dedicato ai “Quattro concetti fondamentali della Psicoanalisi” (l'inconscio, la ripetizione, il transfert e la pulsione), Lacan dedica alcune lezioni ad uno degli oggetti che introduce nel discorso analitico: lo sguardo.

Lo sguardo infatti, sottolinea Lacan, non è riducibile alla mera operazione percettiva del “vedere”: lo sguardo è l’oggetto proprio della pulsione scopica e si colloca, come gli altri oggetti, in un certo rapporto con il soggetto ed il desiderio.
Lo sguardo, quando è “sguardo dell’Altro”, ci inchioda nella posizione di oggetto-guardato, producendo un effetto di turbamento.
Inoltre, vi è una vera e propria costruzione che segna uno scarto dal mero “vedere” allo sguardo, come reso evidente dal fenomeno dell’anamorfosi.
“Estrarre l’oggetto sguardo” ha una preziosa funzione anche in analisi, quando l’analista si “cela” dietro al lettino, sottraendo la dimensione immaginaria della propria immagine dalla disponibilità dell’analizzante. Questa operazione ha molti effetti nella clinica: da una parte privilegia il registro simbolico del linguaggio e della parola; dall’altra frustra la dimensione dell’immagine e della specularità.
Nel corso delle sue lezioni, Lacan riferisce un ricordo della sua giovinezza:
“Per farvi sentire la questione posta dal rapporto del soggetto con la luce, per mostrarvi che il suo posto è altro rispetto al posto di punto geometrale definito dall'ottica geometrica, vi racconterò ora un piccolo apologo.
È una storia vera. Risale a qualcosa come ai miei vent'anni e, a quel tempo, certo, da giovane intellettuale non avevo altra preoccupazione che di andare altrove, di immergermi in qualche pratica diretta, rurale, di caccia o marinara.
Un giorno ero su una barchetta con alcune persone appartenenti a una famiglia di pescatori in un porticciolo. A quel tempo, la nostra Bretagna non era ancora allo stadio della grande industria né dei pescherecci. Il pescatore pescava nel suo guscio di noce, a suo rischio e pericolo. Rischio e pericolo che amavo condividere, ma non erano sempre rischi e pericoli, c'erano anche dei giorni di bel tempo. Un giorno, dunque, mentre aspettavamo il momento di tirar su le reti, un tal Giovannino, lo chiameremo cosi -scomparso molto rapidamente come tutta la Sua famiglia per colpa della tubercolosi che, a quel tempo, era una malattia veramente diffusa e in cui si muoveva tutto quello strato sociale - mi fa vedere qualcosa che galleggiava sulla superficie delle onde. Era una scatoletta, per esser più precisi, una scatoletta di sardine. Galleggiava lì nel sole, testimonianza dell'industria conserviera, che peraltro noi eravamo incaricati di alimentare. Luccicava al sole. E Giovannino mi disse: “La vedi quella scatoletta? La vedi? Ebbene, lei non ti vede!”
Egli trovava questo piccolo episodio molto divertente, io meno. Ho cercato perché lo trovassi meno divertente.
È molto istruttivo. In primo luogo, se ha senso che Giovannino mi dica che la scatola non mi vede, è perché, in un certo senso, essa però mi guarda. Mi guarda a livello del punto luminoso, dove si trova tutto ciò che mi guarda, e questa non è una metafora.”

Cosa ha turbato così tanto il giovane Lacan?
È in gioco quella che Lacan chiama “funzione macchia”; il soggetto infatti si trova a subire un ribaltamento letterale: da osservatore, si sente ora osservato, senza sapere da chi. È la luce, il bagliore, ad evocare lo sguardo dell’Altro.
Aggiunge Lacan:
“Il quadro, certo, è nel mio occhio. Ma io, io sono il quadro. Ciò che è luce mi guarda, e grazie a questa luce in fondo al mio occhio, qualcosa si dipinge...”
Nel cuore dell’estetica anamorfica abbiamo la possibilità di fare l’incontro con il Reale: è questo ad angosciare il giovane Lacan, preso alla sprovvista durante una bella e spensierata giornata d’estate.
In quella luce Lacan fa l’esperienza di una vertigine non rappresentabile, di una “tyche”, un incontro, una contingenza, che non è in grado di inquadrare e davanti alla quale resta spiazzato.
L’oggetto anamorfico si sottrae ad ogni rappresentazione codificata e immediata di sé, aprendo quindi ad un’esperienza ad un tempo familiare ed estranea, “perturbante”, come la definirebbe Freud.
L’estetica anamorfica porta Lacan alla necessità di definire nella “funzione quadro” il cuore pulsante dell’espressione artistica: c’è “arte” quando c’è “funzione quadro”.
Quando abbiamo “funzione quadro”?
Abbiamo “funzione quadro” quando facciamo l’esperienza del ribaltamento testimoniata da Lacan: quando la contemplazione dell’opera suscita un effetto perturbante sullo spettatore, quando l’opera non si presta ad essere mero oggetto di contemplazione, ma evoca lo sguardo rivolto sull’osservatore.
Quando cioè l’osservatore fa l’esperienza di sentirsi come visto dall’opera, interrogato, chiamato in causa.
Ne abbiamo il massimo esempio nella “funzione macchia”, centrale nel ricordo di Lacan: il soggetto si avverte preso dallo sguardo dell’Altro, da soggetto si sente oggetto della pulsione scopica.
Lo sguardo esce dal soggetto: il bagliore lontano della scatola di sarde diviene macchia di luce che catalizza lo sguardo dell’Altro sul giovane Lacan.
Quando c’è esperienza della macchina allora abbiamo l’incontro con un reale che scuote le fondamenta del soggetto: ecco il cuore dell’esperienza dell’arte.
Essere guardato, scrutato, dalla macchia agita il soggetto, esponendolo alla vertigine di essere egli stesso macchia, punto non rappresentabile: un esperienza di estraneità e turbamento apre uno squarcio sul vuoto vivo dell’essere.
L’estetica anamorfica rende possibile un incontro imprevisto che lascia l’osservatore disarmato e colpito, preso alla sprovvista.
L’effetto di visione dell’opera, quando la “funzione quadro” e la “funzione macchia” sono operative, determina una discontinuità che lo spettatore non riesce ad affrontare con le “categorie” tradizionali dell’interpretazione artistica: non è possibile liquidare la faccenda semplicemente dicendo: “ma certo, è questo!”.
L’incontro con il reale ha lo statuto di non rappresentabile, di fuori discorso.
Per approfondire:
-Jacques Lacan – Il Seminario, Libro XI;
-Massimo Recalcati – “Il miracolo della forma”;
-Matteo Bonazzi – “Lacan e l’estetica”.
L’esempio più alto dell’estetica anamorfica è rappresentato dagli “Ambasciatori” di Holbein. In quest’opera, la funzione macchia è svolta dalla figura anamorfica di un teschio, rappresentato in modo tale da non essere intuibile da un’osservazione diretta e frontale dell’opera.

Solo lasciando la stanza e l’opera alle proprie spalle, voltandosi, ecco che la figura anamorfica diviene finalmente intellegibile: si tratta di un teschio, la verità rimossa dell’opera che celebra lo sfarzo delle figure nobiliari rappresentate da Hans Holbein il Giovane.
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