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LA PSICOANALISI METTE IL “DITO NELLA PIAGA”?

La “regola fondamentale” della psicoanalisi impone al paziente di “dire tutto” quello che gli passi per la mente, senza censurare od omettere nulla. Si tratta del dispositivo della “libera associazione”, che Freud ha scelto come strumento d’elezione per analizzare l’inconscio.


Se questo dispositivo funziona, tuttavia, è perché l’associazione, in effetti, non è poi molto “libera”. Anzi, le associazioni del paziente andranno sempre nella direzione delle sue questioni, che si tratti di complessi che condizionano la sua vita oppure di difese che mascherano e impediscono l’emergere dei nodi fondamentali della sua sofferenza.


Come Freud stesso aveva sottolineato, la pratica da lui ideata si chiama proprio “psicoanalisi” perché svolge un lavoro di “scomposizione”: dalla superficie psichica all’inconscio, dai complessi più articolati e dalle idee fino agli elementi nucleari della psiche.


Freud aveva colto come la mente tendesse, spontaneamente, a creare associazioni, nodi, legami tra elementi diversi. Nella psiche quindi troviamo tutta una serie di complessi tra loro articolati, attraverso questa attività di “sintesi”. Quest’opera di costruzioni riflette le dinamiche conflittuali inconsce: tutta una serie di costrutti vengono interposti, a scopo difensivo, tra il conscio e il rimosso, affinché quando relegato nell’inconscio non emerga mai.


Da una parte quindi la mente fa “sintesi”, dall’altra l’analisi, agendo quindi “controcorrente”, scompone.


L’analista quindi invita il paziente ad associare liberamente: il libero fluire del pensiero si scontra con l’emergere di sacche di “non so”, di “punti ciechi”, di “non ci avevo mai pensato”; il suo discorso incappa in “lapsus” e “neologismi”; la sua mente produce sogni e fantasie che svelano scenari inediti.


A partire da questo materiale, nel corso di una psicoanalisi tutte queste formazioni dell’inconscio vengono “analizzate”, scomposte, invitando l’analizzante ad associare su ciascuna di esse. Tutto ciò produce un’opera di smontaggio, di “disarticolazione”, di emersione del rimosso.


Rapidamente, insieme a ricordi e ad idee rimosse, compare l’angoscia, segnale che l’analisi sta determinando il ritorno di qualcosa di rimosso e di doloroso. Per questo possiamo dire che l’analisi, lungi dal costituire un dispositivo che “pacifica”, piuttosto “mette il dito della piaga”, per mostrare con forza che se qualcosa duole, allora “c’è un dire”!


Lacan dice: ““ça souffre” (qualcosa soffre) ou “ça parle” (qualcosa parla)”

“Laddove si soffre, l’Es parla”


Ecco il cuore paradossale della psicoanalisi: se il trattamento medico punta a “soffocare” la sofferenza, attraverso il superamento del sintomo, l’analisi invece insegue la sofferenza per interrogarla ed ascoltarla. Il sintomo analitico infatti non segnala una “mera disfunzione” dell’organo, bensì ha la forma di un “rebus”, di una metafora, di un enigma da decifrare.


Per questo Lacan sottolineava con forza quanto il soggetto, nel corso della propria analisi, dovesse “sudare di brutto”!


Per questo, l’analista, tenendo sempre conto dell’angoscia come “termometro” della “temperatura psichica”, cerca in ciò che fa soffrire la soluzione dell’enigma inconscio che intrappola il paziente nella sua ripetizione sintomatica.


Allora possiamo dire che solo avendo il coraggio di “mettere il dito nella piaga” può emergere la verità inconscia che ci abita.


Caravaggio - “Incredulità di san Tommaso” (dettaglio), 1601
Caravaggio - “Incredulità di san Tommaso” (dettaglio), 1601

Per approfondire:

-Jacques Lacan – “La cosa freudiana”;

-Massimo Recalcati – “La pratica del colloquio clinico”;

-Domenico Cosenza – “Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi”.


Lacan sottolineava l’impossibilità di ridurre l’esperienza della parola in analisi a quella del “principio del piacere”: se, in conformità con quest’ultimo, l’analisi determinasse un allentamento della tensione, una mera riduzione della sofferenza, allora non sarebbe possibile andare nella direzione dei complessi inconsci patogeni, fonte di sofferenza (e di tensione nel sistema psichico).


Per questo, il principio del piacere si tradurrebbe piuttosto nell’evitamento dell’analisi, nel suo ostacolo. Il silenzio emerge quindi come contraltare della parola portata in analisi.


Il lavoro analitico allora pone le basi, tramite la scomposizione dei complessi inconsci, di nuove composizioni sintetiche, a partire dagli elementi liberati dai complessi patogeni che hanno condotto l’analizzante a domandare aiuto ad un analista.


Sarà quindi il paziente, sulla spinta del proprio desiderio e delle proprie scelte, a dare “nuova forma” a questi elementi, attraverso il processo di sintesi operato dalla mente.



 
 
 

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