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LA PAURA DEL BUIO

“Nell’impossibilità di poterci veder chiaro, almeno vediamo chiaramente le oscurità”

(Sigmund Freud)



Il buio e l’oscurità sono da sempre fonte di fascino ed inquietudine. L’assenza di luce ci sottrae la possibilità di conoscere l’ambiente intorno a noi, suscitando un vissuto di paura o di disorientamento. L’esperienza del buio ci mostra l’importanza della vista nel nostro rapporto con il mondo esterno: senza vedere ci sentiamo persi e incapaci di agire.


Tuttavia, nell’ambiente naturale il tramonto del sole non determina lo spegnimento della vita o delle attività di piante o animali; anzi, la vita notturna brulica di esseri e creature che preferiscono vivere lontani dalla luce del sole.


Dal punto di vista psicologico, il buio può essere fonte di grande preoccupazione. Perché?

Solitamente la “paura del buio” è considerata un’esperienza infantile; si tratta senza dubbio di un’attribuzione difensiva: tale paura, a diversi livelli, può essere in realtà presente in ciascuno. Sicuramente i bambini sono più coraggiosi nel parlarne!


Cosa ci spaventa del buio? Si tratta solo del rischio di non poter esplorare, tramite la vista, lo spazio intorno a noi? Certo, le informazioni che otteniamo attraverso la vista sono ben superiori a quelle offerte dal tatto, dall’udito e dall’olfatto. Se non siamo abituati, il trovarci nell’oscurità più totale può spingerci ad assumere un atteggiamento rigido e difensivo, per evitare pericoli e ostacoli difficili da cogliere.


Tuttavia, ciò che davvero ci inquieta nel buio non ha a che fare con l’ambiente esterno. L’assenza di stimoli esterni che colpiscono i nostri occhi ci spinge, da una parte, a porre maggiore attenzione gli stimoli degli altri sensi, che solitamente consideriamo solo “complementari” e non fonte primaria di informazioni. La scarsa dimestichezza con il “solo” tatto o udito può sicuramente metterci in difficoltà; dall’altra, l’assenza di stimoli visivi lascia il campo ad un vero e proprio processo proiettivo.



Il “nero” che ci circonda nel buio diviene infatti come la tela di un pittore, che rapidamente si riempie di immagini, fantasmi e suggestioni che appartengono al nostro mondo interiore. Ne possiamo fare esperienza ogni volta che ci corichiamo, negli istanti che precedono il sonno: è proprio in quel momento, nel quale la mente si “libera” dai contenuti della giornata che è possibile osservare come il pensiero sia condotto per sentieri associativi inediti, a volte bizzarri.


È proprio in questo momento che i bambini chiedono l’aiuto e la vicinanza dei genitori, per non rimanere da soli coi loro pensieri. In un celebre passaggio dei “Tre saggi” (1905), Freud ricorda uno scambio tra un bimbo e la sua zia:


“Una volta sentii un bambino dire alla zia, in una camera al buio: "Zia, parla con me; ho paura del buio".

La zia allora gli rispose: "Ma a che serve? Non mi vedi lo stesso".

"Non fa nulla", ribatté il bambino, "se qualcuno parla c'è la luce".”


La presenza rassicurante dell’adulto placa le angosce del bambino, calmandolo.

Ma cosa ci inquieta nel buio? Si tratta quindi del fatto che non vediamo? No. O almeno, non solo.

Possiamo dire che l’angoscia legata al buio si fondi sulla paura di “vedere qualcosa”. Nella paura del buio possiamo reperire l’angoscia che ci sia qualcosa che “non dovrebbe esserci”.

Ecco la vera radice della paura del buio: la sua natura proiettiva, il vuoto, la tela nera dell’oscurità lascia spazio ad un incontro perturbante. L’angoscia del buio è allora l’angoscia dell’incontro con quanto, dentro ciascuno, è rimosso e ripudiato, perché inquietante, impossibile da accettare o disturbante.

La paura del buio è allora paura del fallimento della rimozione: si tratta del timore che quanto rimosso possa tornare, esponendoci alla vista, angosciante, di quanto sentiamo “premere” dal rimosso.

Se la percezione procede dall’esterno (stimolo) verso l’interno (costruzione del percetto), nel buio vediamo quindi agire un vero e proprio fenomeno proiettivo (dall’interno verso l’esterno).


L’occhio spalancato nel buio cerca disperatamente l’incontro che più teme: l’occhio cerca cioè quanto non vuole vedere. Il vuoto, il nero, l’assenza dell’oggetto temuto non fa che da rimando della sua possibile presenza, sempre da verificare.


Wilfred Bion, durante un seminario degli anni 70, sottolinea che in analisi sia necessario far emergere questo oggetto oscuro, questo punto rimosso, “sottraendo luce”:


“Invece di provare a fornire una brillante, intelligente, bene informata illuminazione per chiarire i problemi oscuri, suggerisco di procurare una diminuzione della ‘luce’.

Un penetrante raggio di oscurità; un reciproco del faro.

La particolarità di questo raggio penetrante è che esso si potrebbe dirigere verso l’oggetto della nostra curiosità che assorbirebbe tutta la luce già esistente, lasciando l’area in esame priva di tutta la luce che possedeva. L’oscurità sarebbe così assoluta che raggiungerebbe un assoluto vuoto luminoso. Cosicché, se un qualche oggetto esistesse, per quanto inestinguibile, si mostrerebbe molto chiaramente”.


Wilfred Bion


Per questo, l’angoscia, nel vuoto, non fa che alimentarsi, rendendo impossibile il sonno. Solo la presenza dell’Altro, come nel caso del bambino, nella sua funzione simbolica di limite, di argine alle proiezioni, ristabilisce il confine tra mondo interno e mondo esterno.


Per approfondire:

-Sigmund Freud – Tre saggi sulla teoria sessuale (1905).


Si tratta del meccanismo di base del feticismo e della fobia come descritto da Freud: la ricerca di quanto rimosso, della Cosa del desiderio originario rimosso, fonte di angoscia e di eccitazione che cattura l’occhio in un vortice paradossale, nel quale vedere è tanto causa quanto soluzione dell’angoscia.


Possiamo osservare nel nero del buio una perturbazione della funzione che Lacan associa al velo: il vuoto in fondo non sarebbe che una minaccia alla caduta del velo. Cadendo, il velo farebbe emergere la verità della Cosa.


In particolare, Freud associa il velo al fallo, inteso come oggetto immaginario, come negativo ( - Phi). In quanto tale, il fallo immaginario, sottolinea Jacques Alain Miller commentando il Seminario IV, sarebbe sempre il fallo femminile.



Il fallo, inteso come negativo, come non – esistente, risponderebbe all’angoscia di castrazione dell’uomo: sotto il velo, sotto la gonna, il voyerista cerca ciò che teme di incontrare; così, il feticista cerca nella donna, tramite il feticcio, ciò che alla donna manca: il fallo.



 
 
 

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