top of page

LA MELANCONIA DI VAN GOGH

Aggiornamento: 31 lug 2024

Vincent Van Gogh è stato uno dei pittori più celebri di fine XIX secolo. Il suo stile inconfondibile e unico ha segnato un capitolo fondamentale della storia della pittura. Nel corso degli ultimi dieci anni della sua vita, Van Gogh ha prodotto oltre novecento opere (tra le quali i celebri autoritratti), numerosissimi schizzi di ispirazione giapponese.


La vita di Van Gogh ha interrogato molti, a partire dai suoi contemporanei: sofferente fin dalla giovane età, Vincent non troverà mai un luogo nel quale trovare solide radici; piuttosto, nel corso della sua vita è possibile individuare numerosi tentativi di dare “forma” e “stabilità” alla propria vita. La pittura e la fascinazione per il Giappone saranno gli ultimi tra questi tentativi di “stare al mondo”.

Autoritratto (1889)


Vincent nasce portando con sé l’impossibile eredità di un fratellino nato morto al quale era stato dato lo stesso nome; non solo, Vincent nasce lo stesso giorno del fratellino, un anno dopo la sua scomparsa.


Il piccolo Vincent nasce quindi come tentativo di evitare il lutto impossibile per la perdita di un figlio; molti, tra cui lo psicoanalista Massimo Recalcati, rintraccia qui l’origine della melanconia di Van Gogh, capace di manifestarsi in altri episodi della vita dell’artista.


Il giovane Vincent cercherà una prima soluzione per orientare la propria vita nella carriera religiosa: dopo una profonda crisi depressiva legata ad una delusione amorosa, Van Gogh provò a seguire la strada del padre pastore e vivrà in povertà vicino ai mendicanti londinesi, incarnando un cristianesimo povero e ascetico; spostatosi in Belgio tuttavia, ancora una volta il giovane Vincent non troverà un luogo per lui: la Chiesa rifiuterà di accoglierlo come pastore, ritenendolo troppo estremo nella propria vocazione, tanto da essere accusato di “misticismo religioso”.

Per il Consiglio Ecclesiastico, “aveva preso troppo alla lettera il modello evangelico”.

Trovare un “posto simbolico” presso l’Altro per Van Gogh appare impossibile.


Allora Vincent cercherà nell’unione inossidabile con il fratello Theo una via d’uscita, avvicinandosi progressivamente al mondo dell’arte: il fratello, figura di riferimento e corrispondente di Vincent, rifiuterà di seguirlo nella carriera di pittore, lasciando Van Gogh solo.

Anche il tentativo di creare un “Uno”, una fusione identificatoria col fratello appare una strada non percorribile.



La soluzione che Van Gogh cerca è da lui stesso definita una “malinconia attiva”:


“Quando mi trovavo in un altro ambiente, un ambiente di quadri e di oggetti d'arte, mi prese, come ben sai, una violenta passione, un entusiasmo per quell'ambiente. E non me ne pento e, ancora adesso, lontano dal paese, ho spesso nostalgia dei quadri ... Bene, ora non sono in quell'ambiente. Pure ... invece di soccombere al male del paese, mi sono detto: il paese e la patria sono ovunque.

E quindi, invece di abbandonarmi alla disperazione, ho optato per la malinconia attiva, per quel tanto che mi consentiva l'energia, in altre parole ho preferito la malinconia che spera, che aspira e che cerca, a quell'altra che, cupa e stagnante, dispera”


Nell’essere pittore Van Gogh poteva cercare quindi finalmente un elemento stabile, tramite il quale sublimare la propria sofferenza. Van Gogh definirà a più riprese la pittura come un “parafulmine” e un “controveleno”. Nell’arte Van Gogh cercherà non un “nome proprio”, ma un rapporto diretto con Dio, con il Creato e con la Natura.

La pittura diviene quindi occasione per esistere come soggetto, imponendo tuttavia a Vincent una consumazione della vita, uno sfinimento, un concedersi senza risparmio.


Nelle diverse città in cui ha vissuto (Bruxelles, Parigi, Anversa, Nuenen) Van Gogh entra in contatto con il vivace mondo artistico dell’età dell’impressionismo e delle nascenti avanguardie; una nuova sensibilità artistica si impone, uscendo dagli steccati dell’Accademia.


Qui Van Gogh crea dei rapporti molto intensi con alcuni artisti; nel successivo periodo provenzale, sarà il sodalizio con Gauguin. Di nuovo, come con il fratello Theo, il tentativo di costruire un sodalizio strettissimo, che offrisse al mondo di Vincent una consistenza nuova, finalmente stabile.

Tuttavia, giunto ad Arles, Gauguin sarebbe rimasto deluso dal luogo, che aveva invece entusiasmato van Gogh: il suo desiderio di trasferirsi ai tropici prevalse sul progetto di Vincent di creare una sorta di “Comunità di artisti” per dare vita ad una nuova arte.


"Camera da letto ad Arles" del 1889


La tensione dei due esplose a fine 1888, quando Van Gogh, dopo aver tentato di aggredire Gauguin, rivolse la lama contro di sé, mutilandosi l’orecchio per poi offrirlo ad una prostituta.

Quello era un periodo di produzione febbrile, nonostante i ricoveri in nosocomi per le allucinazioni che lo tormentavano. Solo, sofferente e con il fratello Theo lontano, Van Gogh si gettò nel proprio lavoro.


Nelle sue opere è centrale il ruolo della luce e il tentativo di afferrare il segreto creativo della Natura: l’arte di Van Gogh non vuole essere una mera riproduzione, ma il tentativo di creare il Bello proprio come la natura fa nel Creato. Van Gogh, sottolinea Recalcati, si pone come “stenografo della Natura”, nel tentativo di cogliere con la sua arte un frammento originario della Natura. Per raggiungere questo scopo, luce e colore sono al centro della sua arte:


“Il colore deve fare tutto, dando attraverso la sua semplificazione uno stile più grande delle cose... guardare la natura attraverso le cinghia, di modo che contorni divengano schematizzati a macchie di colore”


Il suo isolamento non fu scalfito dai primi segnali di riconoscimento della critica per le sue opere.


“Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l'estrema solitudine.”


Nelle lettere a Theo, Vincent aveva fatto propria la sua condizione di solitudine, scegliendo di “vivere la vita del cane”, trasformando la sua condizione di abbandono e ferita in una spinta creativa di delirante libertà senza limiti.


“Resterò un cane, sarò povero, sarò pittore, voglio restare un essere umano – andando in mezzo alla natura”


Van Gogh morì a seguito dell’ennesimo tentativo di suicidio, il 29 luglio 1890, dopo essersi sparato allo stomaco con una rivoltella, in una domenica d’estate passata a dipingere all’aperto.

Nella lettera che aveva con sé per il fratello, non ancora spedita, aveva scritto: “vorrei scriverti molte cose ma ne sento l'inutilità [...] per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione”.


La morte di Vincent sconvolgerà Theo, svelando la funzione di “reciproca compensazione immaginaria” che univa i due fratelli: come racconterà Pissarro, a seguito della morte di Vincent, Theo sarà protagonista di episodi di violenza e follia, aggredendo prima la moglie e poi il figlio, chiamato a sua volta Vincent. Theo morirà pochi mesi dopo, nell’ottobre 1890, per un male di origine incerta.


Ultima opera di Van Gogh, "Campo di grano con volo di corvi" (1890)


Per approfondire:

-Massimo Recalcati – Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh;

-D. Formaggio – Van Gogh in cammino.



Lacan commenterà nel corso del Seminario VII l’opera di Van Gogh, in particolare i quadri nei quali Vincent raffigura le scarpe:


“Questo significante non è neppure più il significante del cammino, della fatica, di tutto quello che vorrete, della passione, del calore umano, è soltanto significante di quel che significa “un paio di scarpe abbandonate”, ossia nello stesso tempo di una presenza e di un'assenza pura - cosa potremmo dire, inerte, fatta per tutti, ma cosa che per certi versi, per muta che sia, parla, impronta che assurge la funzione dell'organico e, in definitiva, del rifiuto…”


"Un paio di scarpe" (1886)


Un significante fuori catena, che non si articola, che non rientra in alcun discorso, proprio come Vincent, che ha scelto di “vivere la vita del cane” randagio, solo.


Conclude Recalcati: “Ecco il punto cruciale a cui giunge la lettura lacaniana dell'opera di Van Gogh: quelle scarpe indicano il nostro essere esposti alla dimensione inaggirabile dello scarto, del residuo, del resto, in una parola, della morte. Le scarpe di Van Gogh esibirebbero liricamente proprio questa condizione di abbandono in cui si trova gettata l'esistenza del soggetto.”

 
 
 

Comments


bottom of page