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VENERE IDEALE E REALE

Aggiornamento: 23 mar

La “Nascita di Venere” è uno dei capolavori più noti del Rinascimento italiano. Realizzata nel 1485 da Sandro Botticelli, su commissione di Lorenzo “il popolano” De’ Medici, cugino minore del più celebre Lorenzo “Il Magnifico”.


L’opera raffigura il tema mitico dell’arrivo della dea sull’isola di Cipro, trasportata su di una conchiglia, poco dopo la sua nascita. La dea è sospinta dal dio Zefiro, dio dei venti, mentre regge tra le braccia la ninfa Bora.


Sandro Botticelli, "Nascita di Venere"
Sandro Botticelli, "Nascita di Venere"

Sulla terra ferma una fanciulla, una delle ninfe Ore, figlie di Zeus, porge alla dea un manto per coprirne il corpo.


La postura della dea richiama il tema tradizionale della “Venus Pudica”, ben noto alla corte dei Medici, come testimoniato dalla presenza di una statua antica posseduta dalla ricca famiglia fiorentina dal 1300.


L’opera è considerata il simbolo stesso di Firenze e da secoli attira visitatori e ammiratori alla Galleria degli Uffizi, dove è conservata.


La Venere rappresenta un modello di bellezza che va al di là dei secoli, affascinando tanto gli osservatori del passato quanto i contemporanei. Ma proprio la sua bellezza nasconde un elemento che sfugge allo sguardo, ma è essenziale per comprendere il significato simbolico dell’opera e il contesto culturale, filosofico e religioso nel quale Botticelli ha operato.


Gli studiosi infatti vedono nella Venere ritratta da Botticelli un’allegoria della filosofia “neoplatonica”: i filosofi del tardo impero romano e della prima età cristiana hanno visto in Platone un anticipatore della religione cristiana e della venuta di Cristo.


In particolare, la suddivisione radicale tra idee perfette e realtà sensibile, corrotta e imperfetta, trova chiaro eco nella concezione dell’anima della religione cristiana. Ecco allora che la Venere di Botticelli non rappresenta una bellezza incarnata, reale, tangibile, ma è simbolo dell’“Humanitas”, della “bellezza spirituale” che non attiene alla carne bensì all’anima, semplice e pura.


Come sottolinea Didi-Huberman, nella Venere di Botticelli trova la propria massima espressione una concezione “apollinea” (in senso Nietzschiano) del bello e dell’arte. La nudità della Venere non svela la vitalità e la sensualità del corpo; anzi, la Venere appare come una figura puramente ideale, asettica, lontana dal poter suscitare un modo di desiderio.


Non a caso, la Venere suscita commozione, ammirazione, stupore, ma non attrazione, turbamento, come accade invece nella celebre Venere di Tiziano.


Tiziano Vecellio, "Venere di Urbino"
Tiziano Vecellio, "Venere di Urbino"

La Venere di Botticelli allora è un’icona del puro ideale, che aggira il reale del corpo, della morte come destino inevitabile della carne, senza possibile tramonto della bellezza. È un’idea, e come tale non tangibile e irraggiungibile.


Ma Didi-Huberman sottolinea che vi sia “un’inquietudine mortale che porta con sé ogni nudità della carne”: si può osservare la Venere senza immaginare che un giorno sarà priva della sua bellezza, per effetto dell’età, della malattia e della morte?


È l’ideale assoluto della “forma perfetta” a rendere tale Venere? È questo che si chiede un artista contemporaneo di grande successo, Jago, nel dare corpo e forma alla “sua” Venere. Il culto del Bello dell’immagine di Botticelli si ribalta nella dimensione materica della statua di Jago.


Jago, "Venere"
Jago, "Venere"

Un dettaglio segna uno spartiacque fondamentale: se lo sguardo della Venere del Botticelli è fisso, immobile, in una stasi che avvolge l’intera figura, nella Venere di Jago lo sguardo della statua è realizzato in modo tale da seguire costantemente lo spettatore: osservando la Venere, si è osservati.


Emerge quindi la dimensione pudica della vergogna che si ribalta sullo spettatore: non è la Venere di Jago a provare vergogna per il suo corpo, decaduto e anziano, ma è lo spettatore, catturato nella vertigine di un reale della morte che l’opera di Botticelli esclude.


Nella Venere di Botticelli abbiamo un simbolico puro, che pone uno iato incolmabile tra sé e il reale; in quella di Jago invece è in gioco il registro dell’immaginario e del reale: sguardo e carne si mescolano, in una sintesi che scuote, perturba, superando il confine tra idea e realtà.


Si chiede Didi-Huberman: “pensare insieme – senza speranza di poterle mai unificare – l’armonia o la bellezza da una parte e l’effrazione o la crudeltà dall’altra (…). Struttura o ferita? Forma o informe? Accordo o conflitto?”


Per approfondire:

-Massimo Recalcati – “Il miracolo della forma”;

-Didi – Huberman – “Aprire Venere”;

-Didi -Huberman – “L’immagine insepolta”.



Il “Bello-scongiuro” è una declinazione “ossessiva” dell’esperienza artistica: il bello cela e nasconde l’orrore, eliminando dalla scena del mondo la morte, la ferita e la sofferenza.


Il Bello allora, sottolinea Recalcati, opererebbe la funzione di una barriera, di limite, rispetto all’irrompere traumatico del reale. Il rischio di questa operazione tuttavia consiste nel perdere di vista il Bello, elevato a Bene.


Il Bello in quanto tale non nega il reale, ma lo assume, lo borda, lo integra in sé. Compito del Bello è sublimare il reale, dargli un posto, non rifiutarlo in quanto tale.


Nietzsche scrive: “non esiste superficie che sia bella senza la terribilità degli abissi”.

 
 
 

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