JUNG E JOYCE
- riccigianfranco199
- 10 mar 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Il racconto del rapporto tra lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung e lo scrittore irlandese James Joyce è affascinante e tragico.

Carl Gustav Jung e James Joyce
Jung era molto attento alla letteratura del suo tempo e a quella antica: Jung cercava, attraverso l’interpretazione delle opere, di trovare conferme o nuovi spunti per la propria teoria.
Per questo, già negli anni Venti del Novecento, Jung si era avvicinato alla lettura delle opere di Joyce, rimanendone profondamente turbato.
In particolare, per Jung le opere di Joyce non erano “interpretabili” e l’“Ulisse” era “incomprensibile”. Di questo testo, considerato uno dei capolavori di Joyce, Jung scriverà una dura recensione nel 1932 nel “Europäische Revue”;
lo psicoanalista svizzero scrisse: “non si dovrebbe mai strofinare il naso del lettore nella sua stupidità, ma questo è ciò che fa l’Ulisse”.
E ancora: “Ogni frase fa nascere un senso di attesa che non viene soddisfatto; infine, per pura rassegnazione, non ti aspetti più nulla”.
Jung prosegue: “Ho affrontato molte pagine con la disperazione nel cuore. L’incredibile versatilità dello stile di Joyce ha un effetto monotono e ipnotico. Nulla viene incontro al lettore, che anzi si allontana, lasciandolo a bocca aperta. Il libro è sempre scritto con uno stile molto alto e comunque lontano, insoddisfatto di sé, ironico, sardonico, virulento, sprezzante, triste, disperato, e amaro.
Sì, lo ammetto mi sento preso in giro. Il libro non cerca di venirti incontro, non fa il minimo tentativo di essere gradevole e questo trasmette al lettore la fastidiosa sensazione di una strana inferiorità”.
Infine, Jung riferisce: “Mi sembra che tutto ciò che di negativo ci sia nel lavoro di Joyce, tutto quello che è bizzarro e banale, grottesco e diabolico, è una virtù positiva degna di lode”.

Jung inviò una lettera a Joyce, con la recensione dell’Ulisse. Questo primo contattò portò Joyce a rivolgersi a Jung, due anni dopo, per cercare aiuto per la figlia, Lucia, affetta da gravissime turbe psichiche, emerse alla fine del suo amore con Samuel Beckett.
Nel 1934, Jung incontrò James Joyce e la figlia, ma il trattamento fu fallimentare.
Joyce tuttavia, già prima di questo incontro, aveva maturato un’opinione non molto lusinghiera di Jung; in una sua lettera del 1921 ad Harriet S. Weaver, Joyce scrive:
“Un gruppo di persone a Zurigo si è convinto che stessi gradualmente impazzendo e ha realmente cercato di indurmi a entrare in una casa di cura dove un certo dottor Jung (la zuppa svizzera da non confondere con il pan bagnato viennese, il dottor Freud) si diverte a spese (in tutti i sensi della parola) di signore e signori che hanno la mente alquanto disturbata”
Joyce lottò tutta la vita contro l’internamento in manicomio della figlia, conservando la profonda convinzione di essere l’unico a poterla capire.

Foto di Lucia Joyce
Lucia morirà nel 1982, dopo una vita passata in manicomio.
L’opera di Joyce verrà in seguito ripresa ed ampiamente commentata dallo psicoanalista Jacques Lacan: se Jung cercava nell’opera di Joyce un “senso”, Lacan osservò come nella scrittura di Joyce fosse necessario rintracciare il godimento della “lettera”, al di là di ogni senso.
La scrittura di Joyce, infatti, è una scrittura chiusa, che si sottrae alla lettura e alla comprensione: i giochi linguistici, la struttura narrativa, la sintassi stessa si sottrae ad ogni sistematicità, per divenire puro godimento della parola.
Quella di Joyce sembra infatti una scrittura che non cerca lettori; non a caso, già Jung aveva definito l’“Ulisse” un “monologo”, scritto senza l’esigenza di essere letto.
Joyce, nel suo essere scrittore, sottolinea Lacan, troverà una supplenza alla propria follia, in modo da darsi un “nome”, un posto nel mondo.

Per approfondire:
-Colette Soler – Lacan, lettore di Joyce;
Ecco la lettera completa che Jung scrisse a Joyce:
Küsnacht-Zürich
Seestrasse 228
September 27th 1932
James Joyce Esq.
Hotel Elite
Zurigo
Caro Signore,
Il vostro “Ulisse” ha presentato al mondo il profondo problema della psicologia e io più volte sono stato chiamato a discuterne in qualità di esperto.
L’ “Ulisse” è un vero osso duro. Mi ha costretto a effettuare insoliti ragionamenti andando incontro anche a logiche stravaganti (dal punto di vista di uno scienziato).
Il suo libro mi ha dato guai a non finire e mi ha fatto rimuginare per circa tre anni sino a quando sono riuscito finalmente a capirlo. Ma devo dirvi che le sono profondamente grato, sia a Lei che alla Vostra grande opera, perché leggendolo ho imparato molto. Io probabilmente non sarò mai completamente sicuro da poter dire se mi piaccia o no, perché richiede un eccessivo uso di nervi e di materia grigia. Anche io non so se potrete essere soddisfatto di ciò che ho scritto sull’ Ulisse. Non potevo non raccontare al mondo quanto mi sono annoiato, quanto ho brontolato, come l’ho maledetto e quanto l’ho ammirato.
Le ultime quaranta pagine finali sono come un saggio di psicologia. Immagino che la madre del diavolo sappia cosa ci sia dentro la psicologia di una donna, sicuramente non io.
Beh, io Le consiglio questo mio piccolo saggio. Leggetelo come il tentativo divertente di un perfetto sconosciuto che si è smarrito nel labirinto del vostro Ulisse e ne è uscito per pura fortuna.
In ogni caso potrà capire dal mio articolo come il vostro Ulisse ha ridotto uno psicologo apparentemente equilibrato.
Con la mia più profonda stima, rimango, caro signore,
Cordiali saluti,
Carl Gustav Jung

Jung era profondamente convinto che anche James Joyce fosse psicotico; intervistato anni dopo, riferì che “tale schizofrenia era funzionale al suo genio.”
Lo psicoanalista svizzero descrisse James e la figlia Lucia “come due persone che stanno annegando in mezzo a un fiume in piena, ma mentre una affonda senza speranza, l’altra ci sguazza beatamente.”
Lacan in merito offre una lettura più sfumata, sottolineando l’unicità del “caso Joyce” nel corso del suo Seminario “Il Sinthomo”.
Abbiamo parlato in diversi articoli dell'opera di Jung; ecco il link per poterli leggere.
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