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IL RAPPORTO CON LA MORTE

Aggiornamento: 30 apr

L’esperienza della morte è da sempre circondata da un alone di mistero.

“Perché si muore?” costituisce una delle domande che da sempre tormenta l’animo umano.


Della morte nulla si può dire: essa costituisce un evento intorno al quale si è tentato, in ogni modo, di costruire un apparato simbolico che permetta di catturarne l’essenza, la logica ed il significato.


Ogni sapere ha tentato di costruire una propria concezione della morte:


-la biologia intende la morte sul piano organico e chimico, come la fine dei processi metabolici, fisiologici e chimici di un organismo; la morte sarebbe quindi il concludersi di un’attività, di una serie di reazioni, di azioni, con il conseguente sfaldarsi di un’organizzazione di elementi, cellule, tessuti che prima cooperavano in armonia nel vivente.


-la filosofia, di ogni luogo ed ogni tempo, ha tentato di offrire delle risposte circa gli interrogativi che gli uomini nei millenni hanno formulato sulla morte. Ne è un esempio brillante la formulazione di Epicuro, il cosiddetto “tetrafarmaco”, la medicina amara ma liberatrice, capace di offrire la felicità agli uomini. In particolare, Epicuro polemizza circa la paura degli uomini verso la morte:


“Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi.”


Epicuro, lettere a Meneceo sulla felicità, 125.


L’esperienza della vita, del pensiero e della coscienza sarebbe quindi in totale discontinuità con quella della morte, senza alcun punto di contatto.

In questa concezione vi è quindi un netto taglio, una barra che separa nettamente vita e morte, senza alcuna possibilità di contatto.


-il mito ha cercato di trattare, umanizzare, il rapporto con la morte, cercandone il superamento: ne è un caso il racconto di Orfeo ed Euridice; nel racconto greco lo spirito del defunto è in un altro luogo, l’Ade, nel quale è prigioniero e tormentato dagli eventi della sua vita passata. Di riflesso, i romani vedevano nella Via Lattea il luogo dove le anime pie giungevano dopo la morte, così come testimoniato dalle memorie degli Scipioni.


-infine, la religione: il Cristianesimo ha fondato la propria fortuna sulla promessa straordinaria di una vita oltre alla morte; la passione di Cristo diviene, per il fedele, testimonianza di come la morte non sia che un passaggio. La Resurrezione diviene “sconfitta della morte” e promessa di una vita che non avrà più fine, una vita eterna che non contempli più né sofferenza né morte.


Anche la religione quindi pone un certo accento sulla radicale discontinuità, sulla necessità di separare vita e morte.

Quindi con la morte vi sarebbe una sorta di "non rapporto", un'inesistenza di rapporto con la morte.


Esistono casi in cui invece, un rapporto con la morte esiste?


Se ogni popolo e ogni sapere ha elaborato un proprio singolare rapporto con la morte, vi sono esempi di come la morte fisica, il termine delle funzioni biologiche dell’individuo, non sia stato inteso come “fine della vita”.


Anzi, per alcuni popoli, la morte fisica non sarebbe che una forma di “sonno”, di “addormentamento”. Non si tratta semplicemente della necessità, presente anche nella cultura egizia e in quella cristiano – occidentale, di preservare il corpo del defunto per una vita futura (come la pratica della mummificazione o il Credo nella “resurrezione della carne” testimonia), bensì di un rifiuto di considerare la morte biologica come un momento di discontinuità, di taglio, di rottura.


Ne è un esempio il popolo indonesiano dei Toraja: la morte fisica costituirebbe infatti uno stato di malattia, detto “Toma Kula”, che si tratta di “curare”. I defunti non smettono di essere parte della vita della comunità, che ogni giorno offre loro cibo, bevande, vestiti e sigarette.

Ai defunti sono quindi riservate le stesse attenzioni riservate a prima della loro scomparsa.


I corpi dei defunti vengono trattati così da fermare il processo di decomposizione e continuano a far parte della vita quotidiana delle loro famiglie: ormai sono numerosi i reportage che mostrano famiglie Toraja che pranzano, passeggiano e mostrano i corpi, accuratamente vestiti, dei loro defunti.


Solo un costoso ed elaborato rito funebre, della durata di diversi giorni, permette al defunto di “morire”: grazie al rituale, il defunto può superare il suo stato di “malato”, di “addormentato”, per raggiungere i suoi antenati.


I Toraja rappresentano un esempio estremo del tentativo dell’uomo di padroneggiare, tramite il simbolico del rito e della religione, il reale impossibile della morte.


Il complesso insieme di credenze che regola il rapporto del popolo Toraja con la morte si chiama “Aluk to dolo”, “la via degli antenati”.


“Aluk” sarebbe il nome di un insieme di riti, credenze e leggi religiose che regola i rapporti tra il “mondo superiore”, quello “intermedio” e quello “inferiore”.


Le case dei Toraja, note per la loro forma insolitamente slanciata e arcuata, richiamano in modo esplicito la tensione della loro cultura verso il cielo, eco della ricerca di un rapporto diretto con la divinità.


Il passaggio al “Puja”, il mondo superiore, è il fine ultimo della vita di ogni Toraja fedele alle sue tradizioni: il rito funebre necessario per morire ed accedere al mondo superiore è molto complesso, lungo e costoso, tanto da imporre al fedele di risparmiare per molti anni in vista di questo momento.


Il rito è tanto dispendioso da essere spesso inaccessibile una volta sopraggiunta la “morte fisica” dell’individuo: il defunto, considerato “makula”, malato, resta nella casa della famiglia, prendendo parte alla vita quotidiana e sociale della comunità.


I corpi vengono trattati, così che non vadano incontro a totale decomposizione e distruzione. Così che possano essere manipolati, lavati e spostati.


Una volta l’anno, accumulato il capitale necessario, può avere luogo il rito funebre, il “Rambu solo”: un gran numero di animali, tra cui sei bufali, vengono sacrificati in onore del defunto, così che possa liberarsi degli spiriti e unirsi agli antenati. Terminato il rito, il corpo del defunto è collocato in una bara e il suo corpo collocato nella tomba della sua famiglia (spesso ricavata in una parete rocciosa): all’ingresso della cavità viene posta una statua che simbolizza il defunto, a guardia e protezione dei suoi resti.

Tuttavia, neanche questo articolato rituale funebre segna la fine del rapporto tra le spoglie del defunto e la sua famiglia: ogni anno, ad agosto, ha luogo il “Ma’nene”: i corpi mummificati vengono estratti dalle bare, per essere lavati, puliti e gli abiti che indossano cambiati.


Queste evento mobilita tutta la comunità dei Toraja: parenti da tutta la regione raggiungono le case dei loro antenati, partecipando a momenti di convivialità e banchetti.



Benché la dimensione fisica della morte non sia considerata, è evidente come la sua rimozione, ad opera del simbolico, non faccia che mettere in primo piano proprio il reale del corpo; si tratta di un vero e proprio effetto paradossale: questo “eccesso” di simbolico legato alla morte si traduce nell’impossibilità di eliminare il corpo, elemento che, nella negazione della sua implicazione nella morte, diviene elemento centrale, imprescindibile.


Ecco il paradosso: la negazione della morte biologica come forma della morte, la sua rimozione, costituisce il fondamento di un rapporto strettissimo con il corpo in quanto "morto".


Ecco quindi come il rapporto con la morte non sia un elemento dato per natura, bensì regolato, in modo anche singolare, dalle leggi del simbolico, che solo parzialmente, hanno presa sul reale.

L’esempio dei Toraja ci mostra uno iato tra la morte come evento del corpo e la morte simbolizzata, celebrata, ritualizzata e regolata da un apparato di simboli, leggi e regole.


Il reale del corpo che muore rimane un mistero che il simbolico solo in parte può regolare: al di là degli apparati simbolici, il rapporto con la morte, quella che Lacan chiamerà il “padrone assoluto”, resta un elemento singolare, col quale ciascuno è chiamato a fare i conti.


Spesso è la morte di un caro a segnare uno spartiacque nella vita di un soggetto: è proprio il fallimento del simbolico nel trattare l’impossibile della morte a fare trauma e a far domandare ad un soggetto di poterne parlare ad un analista sul lettino.

 
 
 

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