IL MITO SULL’AMORE DI PLATONE
- riccigianfranco199
- 28 gen 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Nel “Simposio”, celebre dialogo sull’eros scritto da Platone, il filosofo dà voce ad alcuni dei protagonisti della scena filosofica, politica ed artistica dell’Atene del V secolo a.C..
Al simposio prendono parte:
-Aristofane, famoso commediografo, autore di opere in gran parte perdute, come “le vespe” e “le nuvole”;
-Socrate, il filosofo maestro di Platone, condannato a morte dai Tiranni con l’accusa di “corrompere i giovani”, di “ateismo” e di “empietà”;
-il giovane Alcibiade, politico e generale ateniese, tra i protagonisti della Guerra del Peloponneso;
-il poeta e drammaturgo Agatone;
-il medico Erissimaco;
-infine Pausania, nobile ateniese amante di Agatone.
I partecipanti al simposio sono invitati a proporre il loro discorso su “eros”: ciascuno, dal proprio punto di vista, racconta agli altri presenti il proprio “sapere” sull’amore.
È Aristofane a raccontare il “mito dell’androgino”: il commediografo racconta di come, un tempo, gli uomini fossero molto diversi da come sono oggi.
Come scrive Platone:
“Un tempo ... gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all’antica perfezione.
…
Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che oggi, ma molto differente. Allora
c’erano tra è gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si conservato sino a noi, ma il è genere, quello scomparso. Era l’ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva è caratteristiche sia del maschio che della femmina.
Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco
onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un
insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo
perfettamente rotondo, ai due lati dell’unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la
generazione, e il resto come potete immaginare.
Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si
mettevano a correre, facevano un po’ come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le
capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c’erano tre generi questa, che il è maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra.
La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro
genitori. Per questo finivano con l’essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era
immenso.

Leonardo da Vinci - disegno dell'androgino
Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei
tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora è Zeus e gli altri dèi si
domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave è imbarazzo: non potevano certo
ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza.
Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. “lo credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri.”

Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d’ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un’apertura – quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava per qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell’ombelico, come ricordo della punizione subita.
Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra.
Si abbracciavano, si stringevano l’un l’altra, desiderando null’altro che di formare un solo essere.”
Il racconto di Aristofane tenta di rendere conto di una dinamica centrale dell’amore: il rapporto del soggetto con l’oggetto causa del desiderio.

Cosa è capace di far sorgere l’amore? Per Freud, l’oggetto amato ha un posto speciale perché rinnova la speranza di provare ancora una volta l’esperienza del mitico, primo soddisfacimento.
Per questo, per Freud, l’esperienza dell’amore è sempre caratterizzata dall’illusione e dalla delusione: prima l’illusione di ritrovare nell’oggetto che incontriamo proprio l’oggetto da sempre perduto; in seguito la delusione per il fallimento di questa ricerca: ciò che incontriamo non è mai uguale a quello che cerchiamo.
Ecco, in sintesi, il carattere del desiderio freudiano: un moto sempre alla ricerca di sé stesso, senza che nessun oggetto possa davvero soddisfarlo pienamente. Il desiderio punta quindi ad alimentarsi, trovando nella propria insoddisfazione la spinta per rinnovarsi continuamente.
Il desiderio non vorrebbe quindi che desiderare, continuare la propria spirale senza che nessun oggetto possa mai esaurirlo.

Il circuito della pulsione, rappresentato dallo schema in questa immagine, mostra come la pulsione manchi sempre l'oggetto, bordandolo.
Ma esiste questo mitico “primo oggetto di soddisfacimento”?
Questo oggetto mitico, come indica Freud, è “da sempre perduto” e assume un vero e proprio valore simbolico: non si tratta della mera nostalgia per qualcosa di davvero accaduto, ma del tentativo di interpretare la mancanza, elemento strutturale dell’esperienza umana: il fatto che vi sia un “buco” suggerirebbe l’idea del pieno, che qualcosa possa placare l’eterna spinta del desiderio.
Così l’uomo del mito platonico vive la propria mancanza come frutto di una scissione, di una perdita dell’originaria e piena totalità, perduta per sempre, per l’invidia degli déi.
Per approfondire:
-Platone – Il Simposio;
-Lacan – Il Seminario – IV – La relazione d’oggetto;
-Freud – Tre saggi sulla teoria sessuale.
La clinica dell’isteria mostra con chiarezza il funzionamento del desiderio umano: l’incontro con l’altro è segnato dall’insoddisfazione; questo rifiuto rifletterebbe la necessità di mantenere vivo il desiderio e la possibilità stessa di alimentare questa ricerca.
Inoltre, la teoria freudiana del mitico “primo soddisfacimento” permette di spiegare in modo efficace la dinamica illusione – disillusione che caratterizza il rapporto d’amore: quando la relazione è all’inizio e il partner è ancora, sotto molti aspetti, sconosciuto, è spesso presente una viva e vivace “idealizzazione”: il non sapere sulla verità del partner lascia spazio ai fantasmi dell’amante, che cerca nell’amato quanto desidera, sperando di trovarlo. Conoscere il partner lascia invece spesso spazio alla delusione: l’emergere della verità, del sapere sull’altro, enfatizza la differenza tra il partner reale e quello ideale, segnando spesso la fine dell’amore.
“Il vostro desiderio non forse di essere una è sola persona, tanto quanto possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte?”
Il desiderio di fare “Uno” è un altro dei fantasmi dell’amore: l’unione tra il soggetto, mancante per effetto del linguaggio, e l’oggetto piccolo (a), rappresentante di quanto ricerca e da sempre è perduto e quindi da sempre ricercato.
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