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IL CROLLO DI NIETZSCHE

La vita del filosofo Friedrich Nietzsche è costellata da episodi affascinanti, che a lungo hanno fatto discutere gli esperti e gli appassionati.


Tra questi, occupa un posto di rilievo il cosiddetto “crollo di Torino”: Nietzsche, dopo una prima visita nell’aprile del 1888, decide di trasferirsi a Torino il 21 settembre di quell’anno, per restarci solo qualche mese, fino al momento del suo crollo psichico, nel gennaio del 1889.


Il palazzo di Torino nel quale Nietzsche ha soggiornato.


Il filosofo ha scritto numerose lettere ad amici e parenti nelle quali racconta come a Torino abbia trovato un clima mite, una “...città dignitosa e severa! Niente affatto grande città, niente affatto moderna come avevo temuto: ma una residenza del diciassettesimo secolo, dove su tutto era stato imposto un unico gusto, quello della Corte e della noblesse.”


L’entusiasmo per la città si accompagna ad una fase di grande creatività; Nietzsche, in pochi mesi, completa tre opere di grande valore filosofico e letterario: “L'Anticristo”, “Il crepuscolo degli idoli” ed “Ecce Homo” (pubblicato postumo).


Questa parentesi di serenità sarà interrotta il 3 gennaio del 1889: giunto in piazza Carignano, vicino al proprio alloggio, il filosofo vide un cocchiero frustare violentemente il proprio cavallo, ormai esausto. Nietzsche, toccato e commosso, si sarebbe avvicinato, con vivaci e accese rimostranze, lamentandosi per il trattamento subito dall’animale; il filosofo, accostatosi all’animale, lo avrebbe abbracciato e baciato, col viso rigato da lacrime.

Qualche istante dopo sarebbe crollato, colto da spasmi e da una crisi convulsiva.

Questo episodio ha acquisito un valore “mitico” nella storia del filosofo: da allora, Nietzsche non sarà mai più lucido, scivolando nel silenzio e nelle nebbie della follia.


Gli anni successivi, il filosofo sarà accudito dalla madre e dalla sorella, fino alla morte sopraggiunta il 25 agosto 1900.

La parentesi di Torino è l’ultimo momento creativo per il filosofo; i messaggi successivi, confusi e sconnessi, sono raccolti nei cosiddetti “Biglietti della follia”: si tratta di messaggi sconnessi, privi di coerenza tra loro, la cui lettura suggerisce il progressivo ed avanzato declino mentale del filosofo.



L’episodio di Torino, per quanto eclatante, ci spinge a considerare con grande attenzione un aspetto centrale della clinica: come distinguere un sintomo medico, organico, da un sintomo psichiatrico o psichico?


All’epoca di Nietzsche non era possibile escludere con certezza la base organica dei disturbi mentali: per questo, intorno alla “follia” del filosofo circolano le più disparate ipotesi; si è trattato forse delle conseguenze della sifilide terziaria? Di una forma tumorale? Degli effetti di una patologia ischemica? Si tratta degli effetti da avvelenamento da mercurio, utilizzato come farmaco all’epoca? Oppure Nietzsche era affetto da un disturbo psichiatrico rimasto a lungo latente ed emerso per il grande sforzo creativo di quei mesi?


In effetti, l’ipotesi che la “follia” di Nietzsche sia emersa, improvvisamente, a Torino, vedendo la brutale violenza subita dall’animale, rimane un’ipotesi affascinante, che arricchisce una storia appassionante.


Per approfondire:

-Friedrich Nietzsche – Ecce Homo;

-Georges Bataille - Su Nietzsche;

-Gianni Vattimo - Introduzione a Nietzsche.


Nietzsche negli ultimi anni della malattia.


In ambito psicoanalitico, Jacques Lacan ha proposto un’interessante “teoria dello scatenamento”: lo psicoanalista francese, formatosi in ambito psichiatrico, aveva osservato come nella psicosi fosse possibile distinguere tra una dimensione ordinaria ed una straordinaria.


Se la psicosi straordinaria è caratterizzata dalla presenza florida della sintomatologia positiva della schizofrenia, come deliri ed allucinazioni visive e/o uditive, la psicosi ordinaria sarebbe invece caratterizzata da una certa tenuta del soggetto.


Se lo psicotico straordinario appare un soggetto alla deriva, perso nei meandri della propria follia, lo psicotico ordinario può trovare in un elemento, detto “supplenza”, un aggancio per stare al mondo.


Certo, come sottolineato da Jacques-Alain Miller, nel corso della “Convenzione di Antibes” sulla psicosi ordinaria, nello psicotico ordinario è possibile reperire una certa estraneità, un essere fuori discorso rispetto al proprio corpo, rispetto al linguaggio e rispetto all’altro.


Lo psicotico ordinario si aggrapperebbe ad un elemento (come ad esempio un lavoro), per dare forma e stabilità al proprio mondo; tuttavia, sarebbe evidente una certa rigidità nell’adesione a questa rappresentazione, incapace di declinarsi rispetto alla realtà sociale del soggetto.


Il risultato della ricerca di una soluzione singolare per lo psicotico alla questione del proprio essere è definito da Jacques Lacan con il termine “sinthomo”, riprendendo l’antica grafia del termine “sintomo”: l’obiettivo di Lacan, nell’omofonia dei due concetti, era di sottolinearne il “piccolo scarto”, la piccola distanza che intercorre tra il sintomo classico, della nevrosi, inteso come metafora, alienante, e il sintomo della psicosi, chiuso e non dialettico, olofrasico, supporto dell’esistenza del soggetto.



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