FREUD E LA ROCCIA DELLA CASTRAZIONE
- riccigianfranco199
- 3 giorni fa
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Come finiscono le analisi? Dopo tanti anni di ricerca, Sigmund Freud si interrogava sulla conclusione dei trattamenti psicoanalitici. Nel testo “Analisi terminabile e interminabile” (1937), il padre della psicoanalisi cerca di riflettere sui limiti logici dell’analisi.
Certo, un trattamento può terminare quando il paziente ha superato il proprio sintomo.
Tuttavia, Freud si chiedeva fino a dove la psicoanalisi si possa spingere nell’indagare le dinamiche inconsce della psiche.
Da un certo punto di vista, l’analisi è infatti interminabile: non è possibile ricondurre integralmente l’inconscio alla coscienza; in questo caso è in gioco una fantasia “egoica”, di padronanza e di controllo dell’inconscio da parte dell’Io e della ragione conscia.
Come più volte affermato da Freud, l’Io deve fare i conti col fatto che non è “padrone in casa propria”. Accettare questo limite e il primato dell’inconscio è un passaggio fondamentale del trattamento.
D’altra parte l’analisi si muove a partire da alcune precise “coordinate logiche”, legate ai conflitti e alle dinamiche psichiche che determinano la comparsa della nevrosi. In questo senso, per Freud, una psicoanalisi può essere spinta fino ad un estremo ben preciso.
Qual è il punto estremo di un’analisi per Freud?
Secondo il padre della psicoanalisi, il limite estremo di un trattamento corrisponde alla “roccia della castrazione”, cioè il punto di contatto tra il fisico e lo psichico.
Freud parla di una “roccia basilare” costituita dalla dimensione biologica come fondamento dell’attività psichica.
Freud coglie nel maschile una “protesta virile” invincibile, legata al terrore biologico della castrazione, intesa come “rifiuto della femminilità” nell’uomo. Nella donna invece questo limite, la “roccia basilare”, sarebbe costituita dall’impossibilità di soddisfare, proprio a partire da un’impossibilità biologica, l’invidia del pene.

Per questo, per Freud, alla fine dell’analisi si osserva una necessaria accoglienza del limite che si traduce spesso in un vissuto depressivo.
Molti analisti negli anni successivi si sono interrogati su questo limite logico posto da Freud come insuperabile. Per esempio, per Lacan, un trattamento portato fino in fondo implica necessariamente “l’attraversamento del proprio fantasma fondamentale”, cioè la trasformazione del proprio rapporto soggettivo con la pulsione dal punto di vista simbolico, immaginario e reale.
Questo “attraversamento” si rifletterebbe in un profondo cambiamento del soggetto rispetto alle proprie modalità nevrotiche dolorose di trovare soddisfazione alle esigenze della pulsione.
Troviamo un’evoluzione di questo concetto nella proposta di Massimo Recalcati di lavorare nella direzione di una “conversione della pulsione”: lo psicanalista milanese con questa formula indica la necessità di favorire l’alleanza tra pulsione e desiderio per rendere la vita del soggetto capace di creatività e soddisfazione.
In questo senso, a partire dalla proposta lacaniana, la fine del trattamento dovrebbe piuttosto corrispondere con l’emergere di un “più di vita”, di una nuova capacità sublimatoria.
In gioco quindi non vi sarebbe l’esaurimento dell’inconscio, bensì la possibilità di fare della spinta della pulsione la forza che sostiene l’emergere della creatività e dello stile di ciascuno.
Per approfondire:
-Sigmund Freud – “analisi terminabile e interminabile”;
-Massimo Recalcati – “convertire la pulsione?”;
-Jacques-Alain Miller – “come finiscono le analisi?”.
Il tema della fine dell’analisi interroga molti analisti e riguarda ancora oggi lo statuto particolare della psicoanalisi rispetto alle altre psicoterapie.se la psicoterapia punta alla salute, alla “restitutio ad integrum” della psiche, la psicoanalisi invece punta all’emergere del discorso soggettivo della verità che abita la psiche del paziente.
Per questo è fondamentale che l’analisi sia alimentata non solo da una domanda di aiuto e di cura, bensì soprattutto da una domanda di sapere circa la propria verità inconscia.



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