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ACCABADORA

Aggiornamento: 11 giu 2023

La “madre della fine”


Tra i miti più affascinanti che animano il folklore sardo, quello della “femmina accabadora” occupa un posto di rilievo.

Accabadora” nel dialetto sardo significa “colei che finisce”; il termine deriva dal sardo “s'acabbu” ("la fine") o dallo spagnolo "acabar" ("terminare").

Il mito fa riferimento ad una misteriosa figura femminile che farebbe la sua comparsa presso il capezzale dei moribondi, ponendo fine alle loro sofferenze.

S'Accabadora

Gli studiosi sottolineano come non vi siano prove storiche documentate dell’esistenza di questa pratica: si tratterebbe insomma di una semplice leggenda, resa celebre dalla dimensione esotica ed inquietante di questa figura femminile, a metà tra la strega ed il fantasma.


L’isolamento della Sardegna dal resto del continente ha favorito la sopravvivenza di tematiche culturali, mitiche e linguistiche ancestrali: le dominazioni genovesi, pisane e spagnole hanno solo superficialmente intaccato il substrato culturale dell’isola, facendo sì che miti legati al “lato oscuro” del femminile giungessero fino a noi, in piena continuità con il filone indoeuropeo che trova nelle divinità femminili una delle loro più interessanti espressioni.

Se la tradizione cristiana esalta la dimensione creativa e vitalistica del femminile, la sua purezza, così come incarnata dalla figura di Maria, la madre di Gesù, la figura dell’Accabadora sarda si colloca infatti in un immaginario radicalmente diverso.

Si tratta di una rappresentazione del femminile che pone l’attenzione sulla dimensione oscura della fine e della morte: un femminile archetipico, legato sia alla creazione che alla conclusione della vita.

L’Accabadora, nell’immaginario mitologico sardo, è rappresentata come una dama velata di nero, nascosta da una maschera e armata di un bastone d’ulivo: la morte veniva inflitta al moribondo soffocandolo, oppure con un colpo del “matzulo”.

Il "matzulo", bastone d'olivo utilizzato

dall'Accabadora per infliggere la "buona morte"


Non si trattava tuttavia di un’azione considerata crudele o malvagia; l’intervento dell’Accabadora era considerato benevolo e misericordioso, un atto inteso ad alleviare le sofferenze di coloro che ormai erano prossimi alla morte senza alcuna possibilità di ripresa.

Si tratta quindi di una vera e propria pratica di eutanasia, una “buona morte” per interrompere un dolore considerato inutile.

Per approfondire:

-Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano, Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina accabbadòra. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna, Scuola Sarda, 2003;

-Michela Murgia, Accabadora, Einaudi 2009;

-Italo Bussa, L'accabadora immaginaria. Una rottamazione del mito, Edizioni della Torre, 2015.

Questo personaggio mitico rappresenta un versante del femminile oggi forcluso, rimosso dall’immaginario collettivo.


Tuttavia non è necessario risalire alla Preistoria per trovare esempi di come la cura degli ultimi istanti della vita fosse considerata una prerogativa della donna.


Anche nella vita di Dante vi è un esempio di questa pratica: come racconta lo storico Alessandro Barbero, alla morte di un parente di Beatrice, il giovane Dante si commuove, immedesimandosi nel dolore che ritiene che l’amata Beatrice possa provare; visto dalle donne che accorrono al capezzale del defunto, il giovane è rimproverato per le lacrime che sgorgano dal suo viso: manifestare il proprio dolore e occuparsi di quanto riguarda il defunto non è compito suo, ma loro.

Nella Firenze medievale del XIII secolo, in una società altamente strutturata e organizzata, con ruoli sociali e civili ben codificati, la cura della morte e della nascita era prerogativa esclusiva del femminile.


La dimensione creativa e distruttrice del femminile è ben presente nella codifica archetipica della "Grande Madre", così come descritto da Neumann, studioso junghiano di origine israeliana.


Anche in Jacques Lacan è presente una dimensione "mortifera" del materno, descritta attraverso l'immagine delle fauci del coccodrillo: per la sua stessa struttura logica, il materno non è pensabile separato dall'oggetto che satura il suo desiderio, il figlio. La perdita, che si tratti di morte o separazione, del figlio costituirebbe la fine stessa per la madre; per questo la separazione da un figlio costituisce un vero e proprio momento del lutto. Solo se la donna sa rinunciare al suo essere madre il figlio può nascere come altro, soggetto autonomo dalla propria origine.


Statua in legno che raffigura l'Accabadora

Interrogata su questa figura dell’immaginario sardo, la scrittrice Michela Murgia, autrice di un romanzo di successo intitolato proprio “Accabadora”, ha affermato:


“Veniva affidato a lei l’incarico per non suscitare sensi di colpa, perché i parenti sfuggissero a sospetti di un secondo fine – ha spiegato la scrittrice in un’intervista a proposito del suo libro, uscito nel 2009 – Non veniva pagata, a volte le veniva dato qualcosa da mangiare. Perché lo faceva, allora? Agiva sul mandato della comunità in un contesto in cui i mandati comunitari soverchiavano la volontà del singolo. Spesso l’accabadora era anche la levatrice del paese, ‘sa femina pratica’, era la donna esperta, colei che sa che cosa fare quando è necessario farlo. Perciò era chiamata in diversi momenti della vita: la nascita e la morte.”




 
 
 

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