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JACQUES LACAN E LA “FAVOLA DEL RISTORANTE CINESE”

Come spiegare l’esperienza della psicoanalisi? In molti ci hanno provato, inventando metafore, immagini e storie che potessero toccare il cuore dell’esperienza analitica.


Tra queste metafore, una delle più singolari ed originali è quella del “ristorante cinese” ideata dallo psicoanalista francese Jacques Lacan.

Secondo Lacan, fare un’analisi sarebbe come “entrare per la prima volta in un ristorante cinese”. Immaginiamo di entrare nel ristorante e di trovare il menù scritto in cinese e senza immagini: cosa indicano gli ideogrammi? Cosa vogliamo?

Così in analisi, il paziente, accolto dall’analista, comincia a parlare: questo si fa in analisi, “non si fa altro che parlare”, sottolinea Lacan.


Ma l’analista, per svolgere in modo corretto il suo compito, deve accogliere le parole del paziente facendo emergere l’enigma che le attraversa: deve cioè rimandare il momento della comprensione. Il compito dello psicoanalista è condurre il paziente davanti all’enigma delle proprie parole, facendo emergere un discorso altro, finora inconscio.


Ecco che il paziente allora si rivolge all’analista, assegnandogli il compito di “interprete” delle proprie parole.

Così accade la prima volta nel ristorante cinese: leggiamo il menù, ma non capiamo, in assenza di immagini, cosa i nomi cinesi dei piatti significano; essi appaiono enigmatici e ci spingono a chiedere aiuto al cameriere. Ecco però che la sola traduzione non basta a risolvere il mistero e allora ci spingiamo a domandare dei consigli.


Come sottolinea Bruno Bonoris, attraversati dal dubbio alla fine chiediamo al cameriere: “puoi dirmi cosa voglio?”.


Il paziente giunge a formulare all’analista, posto nella posizione di soggetto supposto sapere, la stessa domanda: “dimmi la verità sul mio desiderio”.

Ecco allora l’intervento dell’analista, che non risponde sul piano della domanda, semplicemente dicendo: “tu vuoi questo”, bensì rimarcando la differenza tra domanda e desiderio: “tu mi domandi questo, ma vuoi altro da quello che io ti dico”.



Quindi l’analista non si pone come un “maître”, un padrone del sapere del paziente, ma si sottrae, occupando la posizione non dell’ideale, bensì dell’oggetto capace di causare il desiderio singolare del paziente.


Ecco perché molti pazienti in analisi da una parte domandano di essere liberati dalla sofferenza ma, contro ogni previsione, restano con ostinazione legati al loro sintomo. La richiesta del paziente allora non deve trovare una risposta diretta, ma un’interpretazione.


Compito dell’analista è sottrarsi dal posto dell’ideale, di chi sa cosa è giusto per il paziente, per causare il suo desiderio, annodando domanda e pulsione.


È il paziente che è chiamato a scegliere a partire dal proprio discorso. Così come il cliente del ristorante cinese è chiamato a scegliere in base al proprio singolare desiderio e gusto.



Per approfondire:

-Jacques Lacan – “Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”;

-Jacques Lacan – “Psicoanalisi e medicina”;

-Bruno Bonoris – “Cosa fa uno psiconalista?”.


Il rifiuto di occupare la posizione del “maître” smarca in modo deciso la posizione dell’analista da quella del padrone: se il padrone (della scienza, della politica, dell’economia) cala sull’altro un sapere chiuso e compatto, l’analista punta invece a creare le condizioni per far emergere il sapere unico del soggetto sul proprio desiderio.


Quindi l’analista impara dal paziente, rifiutando di calare dall’alto una teoria, cercando piuttosto di sapere come, caso per caso, gli elementi base della psicoanalisi si articolano nella specifica situazione clinica che incontra.


 
 
 

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