IL MANICOMIO
- riccigianfranco199
- 8 feb
- Tempo di lettura: 5 min
Cosa sono stati i manicomi? Cosa significava vivere in manicomio? Oggi i manicomi sono strutture spesso fatiscenti ed abbandonate. Giganteschi relitti, solo alcuni sono stati recuperati ad uso civile o sanitario. Per decenni, il manicomio in Italia è stato la “prigione della follia”.
Chi riceveva una diagnosi psichiatrica infatti vi era rinchiuso senza un vero progetto terapeutico o una prospettiva di dimissione. Eugenio Borgna, filosofo e psichiatra, nel 1963 diviene direttore del servizio psichiatrico di Novara. In un articolo, Borgna racconta la sua esperienza di trasformazione del manicomio:

“Nel nostro ospedale, da circa tre anni, sono in corso profonde trasformazioni.
La struttura manicomiale era, tre anni fa, così articolata: un reparto di “osservazione”, che svolgeva servizio d’accettazione, due reparti lungodegenti (i cosiddetti reparti “croniche” e “tranquille”) nei quali le pazienti venivano inviate secondo un criterio esclusivamente comportamentistico, di maggiore o minore autosufficienza; un reparto di “agitate” gestito con i medesimi criteri; una sezione infermeria e, infine, un reparto “aperto” che accoglieva pazienti paganti o in possesso di impegnativa mutualistica, relativamente staccato, quest'ultimo, dal modello manicomiale.
La condizione era caratterizzata dal progressivo ampliarsi dei reparti delle malate “croniche” e “agitate” e dell'aumento complessivo della popolazione ospedaliera.
I più moderni indirizzi culturali psichiatrici tendono invece a promuovere con il paziente un tipo di approccio antropologico che tenga conto soprattutto degli aspetti umani ed esperienziali del malato e non solo del suo comportamento.
Si tratta, in altri termini, di fondare una psichiatria in cui il paziente, da oggetto, si trasformi in soggetto di ogni istituzione.
Una psichiatria che non si accontenti più di “adattare il paziente alle strutture manicomiali” come poteva proporsi Esquirol, più di un secolo fa.
È stato quindi necessario prendere coscienza, da un punto di vista umano, prima che tecnicamente psichiatrico, delle condizioni di vita delle pazienti degenti nei reparti “croniche”, “agitate” e “tranquille”.
Queste pazienti, infatti, costituivano la grande maggioranza negletta della popolazione ospedaliera.
Erano per tradizione secolare le pazienti più “difficili”, costantemente ripudiate dai parenti e dalla società, considerate incurabili.
I reparti lungodegenti erano, in primo luogo, sovraffollati e assolutamente carenti da un punto di vista igienico-sanitario.
In pochi metri quadrati 150-200 pazienti trascorrevano, per anni, le loro giornate.
Nessun segno di riconoscimento personale; non un vestito proprio; non un armadio dove riporre i propri oggetti; il nome delle pazienti, molto spesso, veniva deformato con un soprannome che sottolineava e fissava in modo derisorio alcune loro caratteristiche morbose.
Per contrassegnare con la più drastica evidenza possibile la “vecchia” situazione dell'ospedale, illustreremo ora le condizioni in cui si trovava – paradigmaticamente - il reparto delle “agitate” e le modificazioni e le trasformazioni che siamo venuti facendo.
Il Reparto “agitate” presentava condizioni di vita pessime.
Esso costituiva, fino al 1970, un luogo di punizione.
Una minaccia molto comunemente usata verso le ricoverate era quella del “trasferimento alle agitate”.
Per le stesse infermiere l'anno di servizio in quel reparto era particolarmente temuto e detestato.
Le pazienti dormivano in cameroni affollati, o, in certi casi, in “celle” a un letto.
Di giorno stavano riunite in due grandi saloni, 70 per ogni salone.
Scarseggiavano tavole e panche (esistevano, infatti, non seggiole, ma panche inchiodate al muro).
Alcune ammalate erano costrette a stare sedute a terra.
Spesso alcune pazienti venivano legate alla gamba di un tavolo, ad una finestra, e si disabituati disabituato a chiedere di essere condotta ai servizi.
Le aggressioni fra le ammalate stesse e verso le infermiere erano praticamente continue.
E a ragione, se si pensa che sino ad alcuni anni or sono la terapia di gran lunga più usata consisteva negli elettroshock: che noi non facciamo.

Un fatto non trascurabile, per comprendere la particolare atmosfera del reparto, ci sembra sia quello della durata media della degenza ospedaliera, che era di vent'anni, con un massimo, in qualche caso di più di quarant'anni di ospedalizzazione.
L'età media delle pazienti superava di poco i cinquant'anni.
Abbiamo ricordato che, di giorno, fino a tre anni fa, le ammalate stavano in due saloni separati.
Questo fatto costituiva un'ulteriore discriminazione all'interno del reparto.
Il salone delle “disperate”, infatti, era quello dove venivano messe le pazienti più agitate, o più “disordinate”.
Per queste pazienti, soprattutto, non esisteva alcuna possibilità, alcuna alternativa a quel tipo di vita.
D'estate passavano da un salone a un cortile separato, che non veniva materia che non aveva materialmente alcuna finestra o comunicazione con l'esterno, diversamente dall'altro dove stavano le pazienti che svolgevano qualche “lavoro” e alle quali era concesso, a volte, di tenere il proprio vestito.
Peculiare era anche l'atteggiamento dei medici e delle infermiere nei confronti delle ammalate.
Una frase, che abbiamo sentito ripetere molte volte da malate dai loro parenti, stupiti quando si parlava loro di una possibilità di dimissione, era: “mi è sempre stato detto che il mio posto è questo”.
Oppure: “mi si diceva che non dovevo più pensare a portare a casa mia sorella”. Oppure ancora: “devo portarle i suoi vestiti? Ma se mi hanno sempre detto che è inutile, perché li straccia e si sporca”.
Ci sembra, cioè, che questa situazione testimoniasse più che di una falsa coscienza psichiatrica dell'assenza di coscienza psichiatrica e terapeutica tout court.
Per quanto riguarda l'infermiere basti ricordare che il loro ruolo era esclusivamente, per usare il loro linguaggio, quello di “pulizia” per le più giovani e di “guardia” per le più anziane.
Se una “guardia” durante il lavoro veniva sorpresa dal medico a parlare in tono amichevole con un’ammalata si alzava di scatto, arrossendo e scusandosi per questa mancanza.
Questo, ovviamente, non avveniva se l'infermiera stava rimproverando una paziente.
Questi aspetti erano comuni, in buona parte, anche degli altri due reparti lungodegenti, anche se, in essi, la caratteristica dominante non era l’aggressività, ma, piuttosto, l’apatia, la spersonalizzazione, la mancanza di ogni iniziativa vitale.”
Tratto da “Contraddizioni, e significati, di un’esperienza manicomiale”, di Eugenio Borgna.

La critica al sistema manicomiale si è sviluppata secondo diverse direttrici: da un punto di vista clinico, per l’assenza di efficacia terapeutica; da un punto di vista politico, per la segregazione imposta ai malati; da un punto di vista etico, per la profonda deumanizzazione dei pazienti.
La chiusura dei manicomi è stato un passaggio decisivo per la storia della psichiatria: lo sviluppo del modello territoriale diffuso ha permesso di restituire, almeno in teoria, la dignità di “essere umano” al paziente psichiatrico, prima ridotto a prigioniero, confinato (spesso) a vita nel manicomio.

Borgna, come molti altri, sottolinea l’assenza di “coscienza psichiatrica e terapeutica”, tale era la violenza, negata e non vista, nel manicomio.
Per approfondire:
-Eugenio Borgna – “Nei luoghi perduti della follia”;
-Franco Basaglia – “L’istituzione negata”;
-Erving Goffman – “Asylums. L’istituzione totale.
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