top of page

EUTANASIA

Il dibattito pubblico italiano sul tema del “fine vita” fatica a raggiungere una posizione condivisa.

I reciproci veti tra forze favorevoli e forze conservatrici costituiscono un’importante ostacolo alla promulgazione di una legge che offra una risposta a coloro che soffrono senza speranza di guarigione.

 

Non sono molti gli intellettuali a spendersi attivamente per contribuire al dibattito su questo tema di civiltà; tra questi spiccano le interessanti considerazioni offerte da due psicoanalisti: Umberto Galimberti e Massimo Recalcati.

 

eutanasia

Pur affrontando il tema da vertici differenti, i due analisti sottolineano la necessità di raggiungere questo fondamentale obiettivo di civiltà: una legge che riconosca il diritto ad una fine dignitosa per coloro che soffrono di malattie incurabili.

 

Osserva Umberto Galimberti:

 

“Perché obbligare una persona che soffre come un cane, che invoca la morte, perché non gliela concedete? Rispondono: “perché la vita è un dono di Dio”.

Benissimo: se uno mi fa un dono, l’utilizzo di questo dono non dipende da chi me lo ha donato. Il dono è mio, me lo gestisco io. Questa è la mia vita.

Chiedo a coloro che animano il “Movimento per la vita di decidersi: quando uno nasce, deve nascere naturalmente… oggi rimane opposizione alla fecondazione assistita, che sia omologa oppure eterologa, peggio se è gestazione per altri; cioè niente tecnica. Quando invece uno muore tecnica à go go.

Lasciamolo morire. Se allora uno nasce per natura, lo stesso principio vale anche per la morte.”

 

Galimberti fa propria una concezione profondamente laica e basata sul concetto di autodeterminazione: offrire al soggetto la libertà di scegliere cosa fare della propria vita.

 

Veniamo ora alle parole di Recalcati.

In una recente intervista, pubblicata su “La Repubblica” (08/07/2025) , lo psicoanalista afferma:

 

“Manca nel nostro Paese una legge sul fine vita… Di questa legge esiste una esigenza collettiva tanto ampia quanto sistematicamente misconosciuta dalla politica… salvo rarissime eccezioni, per esempio quella di Marco Cappato.

 

La legge 219 sul biotestamento non può essere sufficiente. Il suicidio assistito rimane in ogni caso fuori legge con la conseguenza che i medici e tutti coloro che lo favoriscono sono esposti a pesanti rischi penali. Per questa ragione migliaia di italiani sono costretti all’esilio in Svizzera o al suicidio solitario.

 

Serve al contrario una Legge che riconosca a chi è sconfitto dalla malattia e non ha più speranze né di guarigione né, soprattutto, di una vita dignitosa, il diritto di scegliere di morire anticipando la cosiddetta morte naturale. Ma si può pensare davvero che coloro che estenuati da una malattia che non lascia scampo e che magari li ha consumati crudelmente per anni o addirittura decenni, non abbiano desiderato profondamente di continuare a vivere?

Che cosa li avrebbe spinti se non il desiderio di vita a sostenere la lotta impari contro la tragedia della malattia? E poi che cosa significa davvero “vivere”? Significa essere semplicemente vivi? Vivere coincide davvero con questa visione brutalmente materialistica della vita come mero respiro vitale, come mera sopravvivenza? Si può ridurre l’essere dell’uomo al suo corpo biologico? Non è questa una opzione rozzamente materialistica?

Non si dovrebbe invece lasciare al soggetto sofferente la decisione relativa alla sua capacità di resistenza, alla sua capacità di sopportare un’esistenza mutilata e oppressa da una sofferenza che esclude ogni possibilità terapeutica e ogni possibile speranza di miglioramento?

Una legge sul fine vita non sancirebbe un diritto alla morte, ma quello a una vita dignitosa in grado di decidere il suo termine. In questo senso essa dovrebbe accompagnarsi a un potenziamento delle cure palliative per rendere l’eventuale decisione di porre fine alla propria vita la più libera possibile. Riconoscere il diritto alla resa non sponsorizza la morte come soluzione, ma tiene conto dei limiti umani della vita. La resa di chi decide per la propria morte di fronte all’inesorabilità del male non è un atto di viltà ma una presa d’atto di una sconfitta drammatica che merita tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà. Come si fa a non capire? Come si fa a imporre ad altri la nostra misura della vita? Come si può costringere altri a vivere una vita che non è più la loro e che assomiglia giorno dopo giorno sempre più alla morte? In questo senso la dichiarazione di resa deve poter essere sovrana…

 

Con la conseguenza che la nostra civiltà ha completamente smarrito la grammatica della resa. L’idea stessa che ci si possa arrendere alla sventura e all’atrocità di una malattia che non lascia scampo, l’idea che ci si possa congedare con dignità dal tempo del mondo, può apparire intollerabile, quasi oscena. Eppure, è proprio nella resa che risuona una verità profonda. Non sempre il desiderio di vivere può trovare la gioia della sua affermazione. Non si ammala solo chi non vuole vivere. Si ammala anche chi vorrebbe vivere ancora. È una cattiva psicologia quella che vorrebbe sopprimere il carattere fatale del male.”

 

Le parole di Recalcati insistono sulla dimensione della dignità come elemento essenziale per umanizzare l’esperienza della vita: non si tratta semplicemente della dimensione biologica della vita, del corpo vivente; in gioco è ciò che rende umana la vita, in salute è in malattia.

 

In questo senso Recalcati propone di recuperare la dignità che accompagna la dimensione della resa, intesa come limite intrinseco alla dimensione umana: non tutto è possibile all’uomo e non tutte le malattie possono guarire; tuttavia, al soggetto resta la possibilità di conservare, anche nella fine, il valore della propria esperienza.

 

Per approfondire:

Recalcati – “A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo”;

Spinsanti – “Scelte etiche ed eutanasia”;

Furnari – “Alle frontiere della vita eutanasia ed etica del morire”.

 

Prosegue Recalcati:

Quando un soggetto dichiara sconsolato che “è diventato troppo per me” o che “non ne posso più”, quando, esausto, dichiara la sua resa, chi può permettersi di giudicare la giusta misura di questa dichiarazione? Chi può permettersi di esigere che tutto quel dolore che ha reso quella vita incompatibile con la vita debba continuare sino a “morte naturale”? Nessuno di noi dovrebbe essere chiamato a giudicare, a correggere, a moralizzare, ma, casomai, ad ascoltare, a offrire uno spazio in cui la parola del soggetto sofferente trovi accoglienza, senza essere violata dalla nostra paura o dalle nostre convinzioni ideologiche.”

 

Le parole di Recalcati sottolineano la dimensione profondamente umana della resa come esperienza integrante dell’umano: si tratta di mettere da parte il mito esasperato della vittoria, del successo che rifiuta di inserire nel proprio discorso la dimensione inevitabile della morte.

 

Conclude Recalcati:

“L’atto della resa di chi chiede di poter morire non è mai un atto irresponsabile. È, piuttosto, la testimonianza estrema di una soggettività che non vuole essere ridotta a sopravvivere ad ogni costo. In quel “no!” a una vita divenuta simile alla morte, la vita rivela tutta la sua umanità. È quel “no!” che la vita solo animale, governata pienamente dall’istinto, non può mai pronunciare. È un “no!” alla vita divenuta morte. È un “no!” non nel nome della morte ma nel nome della vita che reclama sino all’ultimo respiro il diritto alla sua dignità.”

 
 
 

Commenti


bottom of page