LA RESISTENZA IN PSICOANALISI
- riccigianfranco199
- 4 giorni fa
- Tempo di lettura: 3 min
Il concetto di “resistenza” è centrale nella teoria e nella pratica clinica della psicoanalisi. Si tratta di un “concetto operativo” da tenere in considerazione in ogni seduta.
Già Sigmund Freud aveva notato nel corso dell’analisi con i suoi pazienti l’emergere del fenomeno della “resistenza”.
Una prima definizione freudiana considera “resistenza” tutto ciò che “disturba” il lavoro analitico, effetto della mobilitazione delle difese psichiche all’interno del trattamento.
La “resistenza” sarebbe un fenomeno che l’analista può cogliere in “presa diretta”, in seduta, come effetto della mobilitazione delle difese inconsce (che possono invece essere solo dedotte).
Quindi il concetto di “resistenza” appartiene alla “teoria della tecnica”, invece quello di “difesa” alla “teoria della struttura” e del conflitto intrapsichico.

Nell’opera “Inibizione, sintomo ed angoscia” (1925), Freud individua cinque tipologie di resistenza: la resistenza di rimozione, la resistenza di transfert e la resistenza legata ai vantaggi secondari sarebbero legate all’Io del paziente; vi sarebbero poi la resistenza dell’Es e quella del Super-Io.
Ogni meccanismo di difesa determinerebbe l’emergere di forme di resistenza diverse, basate sul meccanismo corrispondente: la resistenza legata alla rimozione sarà diversa da quella basata, ad esempio, sulla proiezione.
La resistenza di transfert riflette il ripetersi in seduta, nel rapporto con l’analista, di distorsioni della realtà legate a materiale rimosso legato a figure significative del passato del paziente.
Infine, per quanto riguarda la resistenza da vantaggio secondario, secondo Freud:
“altre configurazioni sintomatiche, come quella della nevrosi ossessiva della paranoia, assumono un grande valore per l’io, non perché gli rechino alcun vantaggio, ma perché gli danno una soddisfazione narcisistica non ottenibile altrimenti.
I sistemi che nevrotici o ossessivi si costituiscono lusingano il loro amor proprio con l’illusione che essendo essi persone particolarmente pure coscienziose, valgono più degli altri; le formazioni deliranti della paranoia aprono alla sagacia e la fantasia di questi malati, un campo di attività non facilmente sostituibile. Da tutte le relazioni che abbiamo considerato risulta quello che c’è noto come tornaconto secondario della malattia. Esso viene in aiuto lo sforzo compiuto dall’io per incorporarvi il sintomo, e rafforza la fissazione di quest’ultimo. Se noi tentiamo di prestare assistenza analitica all’io nella sua lotta contro il sintomo, troviamo che questi legami conciliati fra io e sintomo agiscono dalla parte delle resistenze. Non ci riesce facile scioglierli.”
Le resistenze dell’Es invece hanno a che fare con l’emergere della dimensione negativa ed erotizzata del transfert, alcune tra le insidie maggiori per il trattamento psicoanalitico.
Tutto questo affonda le proprie radici nella teoria delle pulsioni: la pulsione infatti si oppone al lavoro analitico che vorrebbe separarla dall’oggetto precoce della propria soddisfazione, favorendo invece la coazione a ripetere lungo vie già sperimentate in passato.
Ancora oggi il concetto di resistenza è centrale nella tecnica della psicoanalisi perché sottolinea l’esigenza del paziente di auto conservarsi, di proteggere la propria vita psichica e le vie che ha trovato per ottenere la soddisfazione.
Autori contemporanei come Thomä e Kächele raccontano:
“il paziente in cerca di aiuto sperimenta, proprio come il suo terapeuta, che il processo di cambiamento è, come tale, inquietante perché l’equilibrio che il paziente ha raggiunto, anche se a costo di una serie di restrizioni della sua libertà, garantisce un certo grado di sicurezza e stabilità. Tale equilibrio, per quanto le conseguenze possano essere patologiche, contribuisce in maniera decisiva alla riduzione dell’angoscia... Le varie forme di resistenza hanno la funzione di mantenere l’equilibrio raggiunto; da ciò derivano diversi aspetti della resistenza.”
Come vediamo gli psicanalisti che seguono la tradizione della psicologia dell’io delle relazioni oggettuali collocano la resistenza sul lato del paziente; la proposta di Lacan invece ribalta la questione: “c'è una sola resistenza: la resistenza dell'analista”.
La resistenza alla cura avrebbe origine allora nella scorretta posizione che l’analista assume nel corso del trattamento, occupando una posizione intersoggettiva, in un dialogo a due, invece di quella simbolica.
L’analista quindi farebbe resistenza alla cura agendo come un “Io”, cioè un soggetto che incontra un altro soggetto; secondo Lacan, la posizione corretta dell’analista è invece quella dell’oggetto causa di desiderio (a), di colui che non guida la vita del paziente, non offre pareri, bensì mobilità la ricerca nella direzione della propria verità inconscia.
Per approfondire:
Lingiardi e Madeddu – “I meccanismi di difesa”;
Lacan – “Il Seminario, Libro II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi”;
Recalcati – “Il colloquio clinico”.
Contrariamente alla vulgata comune, il cambiamento e la guarigione costituiscono la sostituzione di un equilibrio già esistente.
Tale equilibrio, benché fonte di sofferenza, ha permesso la pulsione di raggiungere la propria meta.
Il dolore infatti si colloca a livello della coscienza, a livello dell’Io del paziente; tale modificazione va quindi contro le esigenze pulsionali, che già raggiungono la loro meta al netto del dolore che la via percorsa comporta. Per questo vi è sempre resistenza al cambiamento in analisi.
Le esigenze del soggetto dell’inconscio infatti non coincidono con le esigenze dell’Io.
Commenti