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PERCHÈ GLI ANALISTI NON PARLANO DELLA LORO VITA PRIVATA?

È solo cautela e protezione della propria privacy? No.


Si tratta invece di un aspetto essenziale dell’analisi, che ha che fare con la posizione stessa dell’analista.


L’analista deve avere ben presente di agire in quanto “funzione”, su un piano simbolico.

Si tratta di un’asimmetria fondamentale, per evitare di scivolare su un piano immaginario, del rapporto 1 a 1, come quello che caratterizza due amici (o due nemici).


Ciò non significa essere, come spesso viene banalizzato, uno “specchio opaco”, silenzioso e passivo;


L’analista invece mette in gioco qualcosa del desiderio, ma nella forma del desiderio, attivo, dell’analista, cioè il desiderio di far emergere la differenza assoluta che caratterizza il paziente.

Cosa ben diversa dal desiderio di ciascuno di noi, legato alla nostra particolare modalità di sperimentare la mancanza.


L’analista è presente come corpo, come parte attiva, ma in modo assai diverso

dall’analizzante: come funzione, non come soggetto diviso, che domanda e soffre.

Ecco perché l’analista non dovrebbe portare la propria storia personale nelle sedute: per lasciare spazio al suo essere scarto, posto vuoto, mosso solo dal desiderio dell’analista.

Altrimenti si fanno disastri.


Su di sè, in quanto soggetti, si tratta di mettere un velo, di tacere.

Tuttavia, la volontà di afferrare e avvicinare, su un piano personale, gli psicoanalisti ha portato alla scrittura di tantissimi libri che raccontassero vicende amorose, familiari, politiche e istituzionali, delle loro vite. Almeno dei più celebri.


Per quanto riguarda Lacan, ne è un esempio “Vita con Lacan” di Catherine Millot, non a caso allieva prima, amante poi dello psicoanalista francese.




Nelle immagini:

“Gli Amanti” di René Magritte

“Vita con Lacan” di C. Millot

 
 
 

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